Ci sono questioni che vanno maneggiate con cura e che non è possibile aggirare nella loro complessità. La prostituzione è senz’altro una di queste. Farei perciò molta attenzione a sentirsi depositari di verità assolute, a esibire la presunzione di avere tutte le risposte quando il più delle volte non si conoscono neanche le domande giuste.
Allora forse per prima cosa è bene sgomberare il campo da alcune ipocrisie. Il tentativo di creare un quartiere a luci rosse a Roma risponde soltanto a un’esigenza: andare incontro ai cittadini del’Eur che non ne possono più di avere le prostitute sotto casa, con tutto quello che ne comporta.
Tutto parte da qui. Non è per tutela, non è per liberare le donne. È un’operazione di decoro urbano che risponde all’esasperazione degli abitanti di quel quartiere. Non c’è giudizio su questo: credo sia un diritto dei cittadini chiedere di poter dormire senza sentire gemiti ed urla, accompagnare i bambini a scuola senza attraversare il tappeto di profilattici usati, non dover convivere con un sistema che tiene dentro altri aspetti collaterali come la droga e la violenza.
Partiamo da qui, ma proviamo a non fermarci. Perché se il tema è sgomberare lo sguardo allora basta un ghetto lontano dalle abitazioni, se invece vogliamo anche porci il tema di chi su quelle strade ci sta allora la questione è più ampia. E allora se c’è l’impegno da parte di tutti a rispondere a più esigenze, sperimentare un modello può diventare un’opportunità.
Chi sono quindi le ragazze che stanno in strada? Anch’io penso, come dice Giorgia Serughetti, che le prostitute non sono tutte vittime. Il modello svedese – che sancisce l’idea che la prostituzione è una violenza perpetuata dagli uomini sulle donne – mi ha sempre lasciata perplessa. Delle differenze vanno fatte sempre: le escort, e non è un caso che vengano chiamate così, probabilmente fanno una scelta, chi sta in strada è nella stragrande maggioranza costretta a prostituirsi. Questo è quello che ci dicono le unità di strada, le operatrici dei centri antiviolenza, chi da sempre si occupa di loro.
C’è poi un altro effetto, confermato da varie indagini. Gli uomini dei racket evitano sempre più di lavorare dove la prostituzione è osteggiata e preferiscono paesi come l’Olanda e la Germania, dove il mercato del sesso è perfettamente legale. Nelle società delle sex workers con assistenza e pensione è più difficile che la polizia indaghi e anche l’opinione pubblica è piuttosto indifferente. Salvo poi scoprire quasi per caso, come è successo in Germania, l’esistenza di un bordello con più di 100 ragazze tenute in stato di quasi schiavitù e marchiate a fuoco come animali.
Questo a testimonianza che non esiste una linearità delle soluzioni e che c’è bisogno di un combinato disposto di diversi agenti. Si vuole creare un luogo? Questo luogo deve contenere dei presidi stabili di assistenza sanitaria, devono essere presidiati dalle forze dell’ordine, devono avere delle figure di ascolto. Siamo pronti a tutto questo? Siamo pronti a garantire che questi soggetti possano operare senza essere mandati via dagli uomini delle mafie? Dobbiamo fare cioè in modo che il percorso si delinei così e dentro un quadro di mediazione sociale.
Gli abitanti dell’Eur hanno quindi ragione a rivendicare il diritto di non sentirsi “assediati” nel loro quartiere, ma devono sapere fino in fondo che cosa si consuma sotto le loro case. Lo dobbiamo saper tutti: lo sguardo non può fermarsi alle ragazze, ma deve riguardare i loro sfruttatori e i loro clienti. Padri, figli, mariti. Forse l’educazione sentimentale nelle scuole, su cui abbiamo presentato una proposta di legge che aspetta da quasi due anni di essere discussa, potrebbe servire anche a questo.
Allora accettiamo la sfida, ma dentro questo quadro. Raccogliamo allora la possibilità che ci mettono davanti il sindaco Marino e il mini sindaco Santoro. Facciamolo però con delle garanzie: deve essere un percorso partecipato che si fa carico di questa complessità, senza limitarsi a spostare il problema. Quello che non si vede dovrebbe fare male lo stesso. A volte fa male ancora di più.