In questi giorni se n’è parlato tanto eppure sempre troppo poco. Piangiamo le vittime, ci colpisce l’età, il sesso ma tra un po’ non lo ricorderemo più fino a quando non succederà a qualcun’altra. La tragedia di Barletta non è un caso, non si trattava di un’emergenza né tanto meno di una calamità naturale improvvisa. Cinque persone, cinque donne, cinque giovani tra cui una minorenne di tredici anni hanno perso la vita e non è stato un incidente, non è stata una casualità.
Lo capisci non solo pensando a tutto quello che si poteva fare e non è stato fatto ma lo capisci dalle reazioni successive l’accaduto, lo capisci da come si esprime la gente di Barletta, lo capisci anche dalla scelta della denuncia. Non è stata la politica o l’informazione ad affannarsi a dirottare tutta la questione sulle crepe di quel palazzo, è stata per prima la popolazione a dire che era inutile parlare di lavoro nero perché tanto a Barletta si sa che è così e che invece bisognava concentrarsi su quel palazzo crollato. La ragazza sopravvissuta alle macerie piangeva, piangeva per quelle giovani vite spezzate e piangeva per il datore di lavoro, una persona buona, seria che ha dato una mano a tutte quante loro e che ha perso anche una figlia in quel lurido scantinato.
Non bisogna giudicare, non si può liquidare questa considerazione come tutta questa vicenda con delle semplificazioni di tipo “giustizialista” ma non si può neanche accettare l’idea di rivendicare la sicurezza del territorio e non più quella sul lavoro perché “in qualche modo bisogna mangiare”.
È comprensibile questa risposta ma non possiamo accettarla. Barletta parla a tutti quanti noi e riapre tante questioni che non si devono più ignorare. Non si può ignorare che esiste un Sud devastato dalla povertà, dalla disoccupazione e dal lavoro nero. Non si può ignorare che esiste una parte di questo Paese che storicamente vive questi problemi e che con la crisi ha visto peggiorare ancora di più la condizione di vita delle persone. Dati drammatici che raggiungono livelli d’insopportabilità soprattutto quando parliamo delle donne, delle giovani donne.
Gli elevati livelli di inoccupazione femminile che si sommano ad un sistema di welfare debole nell’erogazione dei servizi e ancora incompleto nella capacità di tutela sta determinando soprattutto in questa fase di crisi situazioni di grave disagio sociale. In Campania, Sicilia, Calabria e Puglia lavora poco più del 40% della popolazione in età di
lavoro; le donne che lavorano sono meno di 3 su 10. Siamo in una situazione di emergenza sociale, completamente trascurata dalla politica nazionale, che richiede risposte rapide. Inoltre le difficoltà generate dalla fase recessiva sembrano aver in linea generale aumentato la propensione all’«inattività», con un impatto più drastico per la componente femminile. Come ci spiega un rapporto dello Svimez dell’anno scorso ormai sono tante le “scoraggiate” che hanno smesso di compiere azioni formali di ricerca del lavoro perché hanno perso pure la speranza di
trovarlo.
Oggi, contrariamente a quanto avveniva ad inizio anni ‘90, il tasso di scolarità (secondaria) meridionale risulta sensibilmente più elevato rispetto a quello del Centro-Nord. Riflessi di questa migliore scolarizzazione si evincono dai risultati delle indagini sul
rendimento degli studi che mostrano buone capacità delle ragazze meridionali e se si fa riferimento all’istruzione terziaria, i progressi sono ancora più evidenti. La quota di donne meridionali laureate, con 25 anni, è pari al 50% della popolazione di riferimento, avendo raggiunto negli ultimi anni i livelli del Centro-Nord. È una percentuale ben più elevata
rispetto a quella maschile, che si arresta nel Sud al 34,8% (contro il 37,1% del resto del Paese). Straordinari passi avanti sono evidenziati dal tasso di iscrizione all’Università: le giovani donne del Sud, non solo di gran lunga superiore a quella maschile, ma ben al di sopra del tasso di iscrizione femminile del Centro-Nord.
Tuttavia, questi grandi progressi rischiano di essere vanificati da un’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire queste preziose risorse umane, che in mancanza di opportunità di lavoro, come visto, sono destinate inevitabilmente alla emigrazione, specie dei
giovani maggiormente qualificati. E negli ultimi anni, infatti, il tasso di passaggio all’università, dopo un forte incremento, comincia a declinare.
Il fenomeno migratorio negli ultimi quindici anni riflette i profondi cambiamenti che hanno interessato la struttura economica e la società del Mezzogiorno; esso si caratterizza infatti per il crescente coinvolgimento della componente giovanile più scolarizzata e per una maggiore partecipazione delle donne. È proprio questo uno dei principali elementi di diversità rispetto ai fenomeni migratori degli anni Sessanta: una presenza femminile che rappresenta ormai stabilmente quasi la metà dei migranti e in alcune realtà territoriali costituisce la maggioranza.
Si va via per tanti motivi e spesso non è il lavoro a rappresentare la centralità di questo migrare. Le donne fanno i conti con altri aspetti della propria esistenza. Un modello familiare soffocante, un ambiente sociale poco accogliente, una cultura che ci vorrebbe normalizzare. Da questo punto di vista trovo importante che oggi le giovani donne del Sud pratichino il diritto alla mobilità, alla scoperta, alla ricerca. Certo il massimo da raggiungere è quello di riuscire a farlo non costrette ma libere.