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Il popolo rosa

Snoq
Spesso nel mio partecipare alla politica mi sembra di stare dentro una bolla di sapone. Perché proprio mentre viviamo una fase che imporrebbe un’analisi complessiva dello Stato delle cose e un’accurata generalità, ognuno è impegnato a ragionare su un segmento talmente staccato dalla dimensione organica del problema da trasformarsi in un elemento astratto e anacronistico.
C’è chi si occupa dei “giovani”, delle “donne”, dei “migranti”, dei “gay”. Tutto questo come se non si stesse parlando di umanità, come se i diritti si potessero racchiudere in categorie ascrivibili solo ad alcune persone e ad altre no. Chiaramente l’analisi della società ci evidenzia con esattezza questa privazione, ma l’elaborazione politica dovrebbe immettere nell’azione pubblica la consapevolezza che in realtà di questa privazione siamo tutti vittime. E invece le competenze specifiche di alcuni questioni si trasformano in settori separati dal grande quadro sociale per confinarsi in piccole porzioni di analisi e di rivendicazioni che – proprio perché settoriali – diventano forme di rivendicazione quasi obsolete.
Oggi, più che in altre epoche, non si può non tenere conto dello stato dell’economia e della profonda crisi che sta attraversando il Paese, del livello d’impoverimento accumulato, della disuguaglianza sociale prodotta, dell’inaccessibilità di almeno due generazioni al mercato del lavoro, del peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, della demolizione di qualsiasi forma di garanzia di sopravvivenza statale. Se il quadro in cui ci muoviamo è questo – e purtroppo è questo – la rivendicazione politica di fuoriuscita dalla crisi globale deve portare con sé degli elementi di realtà: deve rispondere a necessità e bisogni veri, impellenti, cogenti. Questo naturalmente non significa non avere una prospettiva, un progetto, un’aspirazione di lungo periodo, significa però che anche il modello futuro si deve costruire rispondente alla modificazione storica in atto (o avvenuta) che obbliga a ripensare alcuni concetti apparentemente intoccabili. La concezione del lavoro, e conseguentemente di welfare, per esempio rientra fra questi: va bene (?) insistere nel chiedere un contratto a tempo indeterminato, ma mentre qualcuno riuscirà in questa faraonica impresa, preoccupiamoci di come la stragrande maggioranza dei giovani, meno giovani e giovanissimi di questo Paese possano campare adesso prima ancora che domani. La precarietà non tutelata – quindi evocata in tanta propaganda partitica, delegata alla “questione giovanile” e demandata anche nelle piazze agli stessi giovani di sempre – rientra esattamente nella politica che non può e non deve essere categorizzata. I giovani sono e stanno da tutte le parti: sono operai, sono professori, sono la manodopera migrante, sono le donne.
Di questo nella convention di Siena del “Se non ora quando” non si è tenuto conto. Una grande partecipazione, un migliaio di donne venute da tutte le parti d’Italia, con in mente la voglia e la consapevolezza di poter (ri)contare qualcosa, di poter determinare scelte e di voler prendere parte alla politica. Bellissimo. Fa un certo effetto in una cornice splendida come quella di Siena vedere tanti volti di donne, tante storie, tanti accenti diversi. Ti emoziona, ti commuove ritrovare in molti sguardi quello di tua madre, ti dispiace non incrociare quello di tua sorella o di tuo fratello.
Perché il primo dato che va sottolineato è proprio questo: a differenza del 13 febbraio – che ci ha visti in piazza tutte e tutti insieme – a Siena la platea era tutta al femminile e con un’età media alta. Non c’erano le trentenni e non c’erano le ventenni. Chiaramente sul palco ci sono state e alcune hanno fatto anche interventi importanti che hanno sottolineato proprio come quella convention non stesse parlando a loro, altre hanno fatto quello che le altre non potevano fare, cioè parlare del web, dei social network e di tutto ciò che attiene alle nuove tecnologie, e altre ancora invece hanno ringraziato per l’opportunità offerta di essere lì. Ma sotto quel palco, in quel prato affollato, intorno alla viuzze invase dai turisti che affacciano per ascoltare e capire, di ragazze non c’era neanche l’ombra. E non stupisce affatto perché l’appuntamento di Siena appunto non parla di noi e non parla con noi.
Tre temi affrontati nella discussione: lavoro, maternità, rappresentanza. Quale lavoro? Quale maternità? Quale rappresentanza? La politica della conciliazione, la battaglia sulle dimissioni in bianco, per esempio, presuppongono il fatto che tu un lavoro ce l’abbia. Decidere perciò di schiacciare la dimensione della discussione politica su questo significa non analizzare la fase in cui versano donne e uomini di questo Paese. Siena, da questo punto di vista, per me ha rappresentato una bolla di sapone che ogni tanto veniva fatta scoppiare da interventi forti – non a caso di giovani – che anziché accoglierli e lasciarli liberi di fluttuare – venivano puntualmente normalizzati.
Un altro aspetto che mi ha colpita è la trasversalità con la destra, anzi più che con la destra bisognerebbe dire con la Perina e con la Bongiorno (perché a me non risulta davvero che sul territorio ci siano donne di Fli impegnate nei comitati Snoq). E comunque ogni qual volta una donna prendeva il microfono ponendo una distanza di visione dalle idee incarnate da queste due “compagne” di viaggio, si veniva bacchettate in nome di una trasversalità necessaria. Addirittura anche dopo l’intervento di Lidia Menapace, peraltro accolta con un’ovazione, si è ritenuto di dovere ancora una volta correggere il tiro. Eppure penso che non ci sia niente di scandaloso nel trovare fuori luogo una metafora imbarazzante come quella usata dalla Bongiorno nel farci capire che la maternità è cosa più difficile che scegliere una borsa Prada o Chanel. Sarebbe il caso, sempre in un’ottica trasversale, che prendesse lezioni di metafore da Bersani.
E penso che non ci sia niente di male che qualcuna abbia sentito l’esigenza di dire alla Camusso, proprio perché le donne non vivono in un’altra dimensione, che ha sbagliato a firmare l’accordo. Si potrà avere un’opinione su questo o dobbiamo parlare solo di maternità? E invece considero inspiegabili alcuni applausi e alcuni fischi a Rosy Bindi. Applausi nel momento in cui esordisce dicendo che non ha mai fatto parte di movimenti femminili e femministi, fischi quando dichiara di voler portare le istanze di quella due giorni dentro il Pd. Inspiegabili gli applausi perché mi sfugge realmente cosa ci sia da valorizzare in una dichiarazione del genere: dovremmo essere a limite noi giovani a sentire il peso di una storia che non abbiamo vissuto e che ci ha condizionate e invece paradossalmente è Valentina, una ventenne di Genova, a dover andare in difesa di quella esperienza della quale in tante lì cercano di sbarazzarsi. Come se bastasse questo per rappresentare il (di)nuovo. Forse prese dagli applausi per festeggiare il quesito referendario sul legittimo impedimento – che, a detta di qualcuna, è stato quello su cui le donne si sono impegnate di più (?) – hanno dimenticato quello sull’aborto e sul divorzio. Quando invece Rosy Bindi esprime totalmente la sua funzione, altrettanto paradossalmente, viene contestata. Il comitato “Se non ora quando” vede al suo interno un evidente presenza partitica e di area culturale di riferimento del Pd, ma dietro la sigla dei comitati questa cosa non disturba. Esplode invece nella rappresentazione istituzionale. La stessa rappresentanza istituzionale che si invoca, che si cerca, che è centrale in tutti i ragionamenti: le donne devono votare le donne, le donne devono confrontarsi col potere, devono contare di più, sono laureate, sono capaci, meritano di non dover fare le commesse (ci ha spiegato un’economista), devono stare dentro le istituzioni. E poi? E poi le fischi, come è stato fatto anche con Livia Turco, nel momento in cui parlano del loro partito.
C’è qualcosa che mi sfugge: mi sfuggiva nei confronti del Popolo viola, mi sfugge nei confronti dei movimenti nati intorno a uomini politici, mi sfugge nei confronti del “Popolo rosa”. Non c’è giudizio in questa osservazione. Anzi, ne scrivo perché colpita, perché interessata a comprendere le cause e le dinamiche. Di una cosa però sono sicura: il 13 febbraio è morto e sepolto. Siena ha aperto un’altra partita vediamo dove porterà.
pubblicato sul settimanale Gli altri