Maria Ciuffi è un’altra donna costretta ad arrivare alle porte di Montecitorio per manifestare le sue paure, urlare il proprio dolore e chiedere giustizia a uno Stato che non si mette mai in discussione. È la madre di Marcello Lonzi, morto l’11 luglio del 2003 nel carcere livornese delle Sughere. Quello di Marcello è uno dei tanti casi archiviati come “morte per cause naturali”. Infarto, precisamente. Per noi invece sembra inserirsi nell’ormai lungo elenco di morti che chiedono verità e giustizia, esattamente come quelle di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e purtroppo tanti e tanti altri.
Ieri siamo stati in piazza Montecitorio con Maria Ciuffi. Ha ricordato che Marcello era stato condannato a 9 mesi per tentato furto. Quando è stato trovato morto aveva già scontato metà della pena ed era in attesa di essere avviato in comunità per la riabilitazione, avendo quasi concluso la terapia a base di metadone. E invece il suo corpo è stato rinvenuto in una pozza di sangue: otto costole rotte, due buchi in testa, polso fratturato. Le indagini sulla morte di Marcello sono state riaperte lo scorso giugno, dopo undici anni di attesa. Purtroppo però il caso rischia di andare incontro a una nuova archiviazione.
I familiari denunciarono l’11 luglio 2003 “evidenti ferite, nonché numerose ecchimosi, alla testa e al torace”. Nell’ottobre dello stesso anno un’interrogazione parlamentare di Giuliano Pisapia, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista e presidente della Commissione Carceri della Camera, chiedeva informazioni al Governo ricevendo dall’allora ministro Castelli questa risposta, che non aggettiverò ma lascerò ai lettori di trovare le parole per definirla.
“Il corpo del detenuto, ormai defunto, è stato attentamente visitato dal medico SIAS montante che non ha riscontrato alcun segno di lesioni in tutto il corpo ad eccezione di ferite lacero-contuse sulla fronte e sul labbro sinistro, verosimilmente procurate al momento della caduta, dopo avere sbattuto sul cancello d’ingresso della cella dove è stato trovato riverso bocconi con tracce di sangue intorno al capo. Gli accertamenti ispettivi effettuati e la ricostruzione della dinamica dell’evento sembrerebbero confermare che la morte del detenuto sia avvenuta per cause naturali”.
E ieri Maria Ciuffi ha esposto pubblicamente le foto del corpo martoriato di Marcello, chiedendo l’attenzione dei presidenti di Camera e Senato su una vicenda che, ad oggi, resta eufemisticamente un altro giallo irrisolto. Noi vorremmo andare un po’ oltre l’investimento legittimo delle alte cariche dello Stato e vorremmo chiedere al Parlamento di esprimersi. Perché questa istituzione, questo luogo sempre più svuotato delle proprie prerogative, deve una volta per tutte assumersi la responsabilità di conoscere la verità su quello che succede nelle caserme e nelle carceri del nostro Paese. Bisogna esprimere una volontà politica netta nel fare chiarezza e nell’individuare i guasti di un sistema che si riduce troppo spesso nell’assioma delle mele marce. Perché con delle leggi giuste anche i crimini delle male marce possono essere prevenuti.
In questi anni c’è chi, per esempio Giovanardi, si è espresso in maniera urticante, dal mio punto di vista malvagio, su questi fatti. Eppure preferisco una posizione così lontana da me, ma che si definisce nella sua interezza, a quella di chi si nasconde in equilibrismi e retorica o, peggio, fa finta di niente aspettando che passi la bufera. Per questa ragione abbiamo presentato, e presenteremo, dei provvedimenti che cercano di rispondere in maniera concreta a questo bollettino di morte: vogliamo che siano il Parlamento e le forze politiche a non nascondersi più.
Da tempo per esempio abbiamo depositato una proposta di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale per colmare così una lacuna gravissima nel nostro ordinamento. Oggi rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell’esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto ad esigenze investigative o di polizia. In questi anni siamo stati al fianco di associazioni attive su questo tema, come Antigone e A buon diritto: insieme a loro abbiamo sollecitato l’introduzione di nuove leggi per il rispetto dei diritti umani, un impegno internazionale che il nostro Paese non rispetta da circa 25 anni (la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ratificata dall’Italia ai sensi della legge 3 novembre 1988, n. 498, prevede all’art. 4 l’obbligo giuridico sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale). Le storie delle morti nelle carceri stanno lì a ricordarci che la tortura esiste. Che è praticata. E nessuno può sentirsi al sicuro.
Ancora aspettiamo l’istituzione di un Garante nazionale per i diritti dei detenuti e il risultato è che ci troviamo di fronte a carceri che scoppiano, tra sovraffollamento e condizioni vergognose delle strutture. Il nostro Paese continua a rinchiudere in carcere i tossicodipendenti, mentre esclude pregiudizialmente qualsiasi dibattito sulla depenalizzazione del consumo della cannabis (per uso creativo e terapeutico) e riduzione dell’impatto penale. Il carcere oggi è fondato anche sul paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi, che il decreto Lorenzin non ha voluto cambiare, colpevolmente, alla luce della sentenza della Corte che ne ha sancito l’incostituzionalità. Perché per il presidente del Consiglio Matteo Renzi questa è non una priorità?
E infine chiediamo l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle morti avvenute in circostanze non chiare all’interno delle carceri italiane: una commissione che faccia finalmente chiarezza sulle morti in carcere – spesso rimaste senza verità – verificando le responsabilità. Il problema non può essere più affrontato solo attraverso le aule giudiziarie, le istituzioni devono fare la loro parte se davvero vogliono un Paese civile. Della finta indignazione non se ne fa più nessuno niente. Le parole di Maria Ciuffi di ieri sono lì a ricordarcelo.
dal Garantista, 12 novembre 2014