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Lo Stato sia a fianco di Rosario Rocca

rosario-rocca-290x290Stiamo depositando un’interrogazione in seguito alle dimissioni irrevocabili di Rosario Rocca, sindaco di Benestare (Rc), dopo l’ennesimo atto intimidatorio ai suoi danni. Si ritrova solo, con le spalle al muro, di fronte ad uno Stato che si è dimenticato di lui e di tutti gli amministratori locali che sono presidi di giustizia sociale contro le mafie.

Le dimissioni di Rosario Rocca non sono affatto una sua sconfitta personale. Ma una sconfitta di tutti. Dello Stato in primis, del Parlamento, del Governo. Che in questi giorni ha vivacchiato tra vere, finte o ritirate dimissioni da parte di alcuni deputati e senatori . Dopo 7 mesi ricordo che ancora non si è ancora insediata la Commissione Antimafia. Basta con i teatrini politici: si faccia immediatamente, come chiedono migliaia di italiane e italiani che hanno firmato l’appello dell’associazione antimafie daSud, la Commissione antimafia. Una commissione che funzioni davvero che stia a fianco ai sindaci e alle amministrazioni, e che non diventi la solita medaglietta da indossare”.[Read more]

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Centri anti violenza, rischio chiusura

di Giacomo Russo Spena
(22 settembre 2013 – L’Espresso)

Finanziamenti a singhiozzo. Affitti salati da pagare. Rischio di sfratti. Pochissime risorse da investire. Il lavoro che si trasforma automaticamente in volontariato. Fino, in alcuni casi, alla chiusura di centri e case rifugio per donne maltrattate che dovrebbero svolgere un ruolo centrale e determinante nel contrasto alla “guerra silenziosa” che ogni anno fa in Italia centinaia di vittime.

La situazione dei centri anti violenza (CAV) in Italia peggiora di giorno in giorno, nell’indifferenza del Palazzo. Tagli e difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, una mannaia. Il decreto sul femminicidio, varato durante l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, non menziona nemmeno i CAV. Per Titti Carrano, presidente della D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), nel dl manca “qualunque riferimento al riconoscimento del ruolo che i centri svolgono da anni in Italia: chiediamo il loro coinvolgimento nei tavoli tecnici che si occupano di violenza e lo stanziamento di specifici e adeguati fondi definiti nella legge di stabilità”.

Un provvedimento (andrà in aula il 23 settembre) che esclude – come previsto dalla Convenzione di Istanbul – gli interventi di prevenzione. Come quelli svolti dai CAV: supporto legale e psicologico alla donna maltrattata, collaborazione con forze dell’ordine e servizi sociali, Telefono Rosa h24 per le emergenze, attività di promozione culturale con corsi nelle scuole, convegni, seminari e iniziative di vario genere. Poi le case rifugio per ospitare le donne in pericolo e impossibilitate a tornare a casa per paura del compagno aguzzino.

Sono 124 le donne uccise nel 2012 e 14mila quelle che si rivolgono, ogni anno, ai 63 centri anti violenza aderenti a D.i.Re. A questi vanno aggiunti un’altra quarantina autocensiti per un totale di 100 centri presenti sul territorio nazionale. E nel 2013 sono in aumento le donne che si rivolgono ai CAV, sintomo di una maggiore consapevolezza.

“E’ arrivata un’ingiunzione di pagamento, siamo a rischio sfratto” denuncia Cinzia Maroccoli, presidente del CAV di Potenza, l’unico dell’intera Basilicata. Si caratterizza per costituirsi parte civile ai processi contro gli uomini maltrattanti. Aperto dal 1989, fino al 2001 è andato avanti con autofinanziamenti. “I soldi arrivano a singhiozzo – spiega – Siamo ancora in avanzo della cifra del 2011 mentre non conosciamo ancora l’importo per il 2013”. In mancanza di risorse, ecco la riduzione dei servizi, il lavoro delle operatrici che diventa volontariato e la morosità nella locazione di 1200 euro al mese. Il CAV ha anticipato soldi e si è indebitato con la banca, con la speranza che arrivino i finanziamenti regionali. Prima o poi. Assenti le risorse per ampliare la casa rifugio al momento capace di ospitare 5 donne. “A volte dobbiamo rifiutare le richieste per mancanza di posti e indirizzare le donne maltrattate verso altre strutture di accoglienza” spiega la presidente “La nostra è precarietà esistenziale, non riusciamo a prospettare un intervento di lungo periodo. Ci negano un futuro”. E due signore ospitate sono all’ottavo mese e sul punto di partorire.

Altri centri rifugio sono stati costretti direttamente a chiudere. Come il caso a Cosenza del “Roberta Lanzino”. Parliamo con la responsabile, Antonella Veltri, che racconta come nel 2010 abbiano preso la sofferta decisione per la mancanza di fondi. Ad oggi sono morosi con il proprietario dello stabile. Rischiavano di chiudere anche il centro di supporto legale e psicologico, per fortuna è arrivata una boccata d’ossigeno: “La Provincia ci ha assegnato un posto”. Un passo importante.
“Ovviamente il lavoro” afferma Veltri “resterà volontario e una qualsiasi spesa sarà coperta da autofinanziamenti o iniziative autorganizzate (riffe o vendita di candele per strada)”. I pochi spiccioli in arrivo dalla Regione non sono sufficienti.

Se al Sud si evidenziano situazioni limite, al Nord i CAV versano in condizioni poco migliori. A parte il Trentino che è la regione più virtuosa e più attenta al finanziamento dei centri. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto sicuro per vittime di violenza di genere ogni 10mila abitanti. In Italia ne servirebbero circa 6mila. Nella realtà sono soltanto 500. A fine anno potrebbero essere ancora meno le case rifugio. Così come le operatrici spesso disincentivate da tale corsa ad ostacoli.

In Emilia Romagna il CAV di Lugo adesso è riuscito ad accedere a finanziamenti comunali ma ha rischiato la chiusura. “Il nostro è volontariato puro” racconta Nadia Somma, presidente dell’associazione Demetra donne in aiuto “Abbiamo ridotto a 6 ore alla settimana il nostro intervento: tra affitto, rimborso benzina, elaborazione progetti, spese varie non avevamo più soldi”. E invece servirebbero risorse anche per corsi di formazione a procure e forze dell’ordine: “Spesso” continua Somma “un agente confonde le violenze domestiche per conflitti familiari non intervenendo a dovere sul compagno maltrattante”. Mentre nel caso di affidi in comune, si costringe la donna a continuare ad incontrare l’uomo che dopo il distacco diviene maggiormente violento.

La rete D.i.Re promette battaglia per modificare il decreto in Parlamento. Così come alcuni parlamentari sensibili al tema. Celeste Costantino, deputata di Sel, ha intrapreso un viaggio nazionale nei centri, chiamato #RestiamoVive, per testimoniare le difficoltà in cui versano queste strutture, raccogliere dati e numeri, ascoltare dalla viva voce delle operatrici le difficoltà del lavoro quotidiano: “Dal Nord al Sud del Paese i CAV si ritrovano a lavorare in una situazione davvero insostenibile. Al più presto serve un piano di finanziamento nazionale per la prevenzione, percorsi di aiuto per gli uomini maltrattanti, un Osservatorio nazionale, l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, proposta di legge, quest’ultima, che ho già depositato. Il dl femminicidio è stato scritto senza tenere conto della complessità del tema e con un’ottica da ‘pacchetto sicurezza’. Un’occasione persa dopo aver votato all’unanimità la Convenzione di Istanbul”.

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Oggi i deputati Sel Celeste Costantino e Giancarlo Giordano, insieme ad una delegazione di tutte le forze politiche rappresentate in Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, hanno incontrato i neoabilitati del Tirocinio Formativo Attivo (Tfa), corso di abilitazione all’insegnamento scolastico creato nel 2012 dal Ministero dell’Istruzione in sostituzione delle vecchie Scuole di Specializzazione chiuse tre anni prima.

Costantino e Giordano hanno ascoltato le storie dei docenti in sit-in dalle 12 davanti a Montecitorio. Storie di ordinaria precarietà dovute a scelte sbagliate effettuate dai governi Berlusconi e Monti. «Con la fine del primo ciclo di Tfa – afferma Celeste Costantino – le responsabilità dei ministri dell’Istruzione che si sono susseguiti in questi anni sono venute a galla: il risultato di alcune scelte politiche non hanno fatto altro che creare una guerra tra “poveri”, e di enfatizzare strumentalmente lo scontro generazionale tra precari con esperienza pluriennale e neolaureati».

I deputati presenti all’incontro si sono impegnati nel richiedere un’audizione ufficiale in VII Commissione con la presenza del Governo. «Ascolteremo tutte le categorie di docenti precari coinvolti – puntualizza Giancarlo Giordano – per avere un quadro più chiaro di una importante questione che riguarda il futuro dell’Istruzione e della scuola in Italia».

La protesta dei neoabilitati è iniziata dopo la dichiarazione del ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza del bando di un secondo ciclo di Tfa ordinario con oltre 29.000 posti da assegnare. Con la comunicazione, tra le righe, che i vincitori della selezione entreranno in una graduatoria fuori fascia per l’assunzione in ruolo.

Omnibus notte

Sta avvenendo in Italia qualcosa di molto simile alla Grecia. Mentre ad Atene chiude la televisione di Stato (adesso ripresa in forma ridotta) e si esibisce per l’ultima volta l’orschestra, a Roma il Colosseo, simbolo di Roma e dell’Italia nel mondo, chiude per la protesta degli operatori. Una manifestazione giusta per i lavoratori che reclamano condizioni migliori, che subiscono gravi ritardi nei loro pagamenti, e che solo dopo questa protesta hanno ottenuto lo sblocco dei finanziamenti per gli stipendia da parte del Mibac. Ma far trovare il Colosseo chiuso ai turisti è un’offesa per tutti.

C’è stata una retorica troppo esagerata in questi venti anni sull’importanza strategica della cultura e del nostro patrimonio archeologico. Tali misure sbandierate in una continua campagna elettorale però non hanno riscontri nei fatti. Anzi, è vero proprio il contrario: investiamo solo l’1,1% della spesa pubblica destinata alla cultura. La media in europa è del 2,2%, il doppio. Siamo al penultimo posto, davanti appunto solo alla Grecia (guarda caso) per percentuale di spesa in istruzione (l’8,5% a fronte del 10,9% dell’Ue a 27).

Eppure come sottolinea lo studio Unioncamere/Symbola (Io sono cultura 2013) la cultura rappresenta il 5,4% della ricchezza prodotta, equivalente a 75 miliardi di euro. Un settore che dà lavoro a un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,7% del totale degli occupati in Italia. Allargando lo sguardo a tutta la “filiera della cultura”, ossia ai settori attivati come il turismo legato alle città d’arte, il valore aggiunto prodotto dalla cultura schizza dal 5,4 al 15.3% del totale dell’economia nazionale.

Questo è un tema politico. E quindi purtroppo sarà uno dei più complicati dal Governo Letta, che in queste settimane ha dimostrato di trovare un accordo pd-pdl sulle questioni tecniche, ma di aver difficoltà a trovare una quadra nei temi strettamente politici. E senza politiche culturali è come se avessimo il Colosseo chiuso ogni giorno.