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Celeste Costantino nuova segretaria provinciale Sel Palermo

da LiveSicilia.it

È la 33enne Celeste Costantino la nuova segretaria provinciale di Sinistra ecologia e libertà a Palermo: è stata eletta ieri sera dall’assemblea del partito. Laureata in Filosofia e con un master in Mediazione culturale, Celeste Costantino è membro della presidenza nazionale di Sel sin dalla fondazione del partito. La giovane dirigente nazionale di Sel vanta una lunga esperienza nel mondo dell’associazionismo e dei movimenti: è stata portavoce dell’associazione antimafie daSud, ha fondato e animato la rete di associazioni della sinistra diffusa Tilt, ha dato vita a “Ragazze interrotte” (l’associazione che promuove le politiche di genere e contro la violenza sulle donne) ed è stata impegnata nel movimento di lotta per la casa di Roma. Di recente ha coordinato la campagna delle primarie di Marco Doria, neoeletto sindaco di Genova.

L’elezione della dirigente nazionale Celeste Costantino a Palermo arriva dopo il deludente risultato delle elezioni amministrative scorse. In vista delle prossime regionali il partito di Nichi Vendola ha deciso di dare nuova linfa a Sel, restituendo centralità alle vicende politiche palermitane e siciliane. “Sono felice dell’importante opportunità che mi viene offerta di lavorare a Palermo dopo gli anni trascorsi a costruire il partito calabrese prima e a livello nazionale poi. Per questa ragione – sostiene la neoeletta Costantino – ringrazio Nichi Vendola e la presidenza nazionale. Ma soprattutto un ringraziamento va a tutte le compagne e i compagni di Palermo per la fiducia che mi hanno voluto accordare. Già in queste ore ci siamo messi al lavoro per restituire fiducia a un partito che alle ultime elezioni non è riuscito a esprimere al meglio le proprie potenzialità. La nostra parola d’ordine sarà apertura e confronto con la società palermitana e siciliana – spiega Costantino – Da subito avvieremo una fase di rilancio della nostra azione politica: vogliamo lavorare per radicare il partito, per riconnetterci con le migliori esperienze sociali, culturali e associative della città, per giocare da protagonisti la partita delle regionali e liberare la Sicilia da un sistema di potere che l’ha condannata alla marginalità e al malaffare. Mi metterò a disposizione insieme a tante e tanti per contribuire a cambiare Palermo, la Sicilia e il Paese”.

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La prossima potrei essere io

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Cinquantacinque nomi di donne vittime di violenza. Cinquantacinque cartelli più uno con su scritto: “La prossima potrei essere io”. In piazza Montecitorio, a Roma,  la rete di collettivi di sinistra, Tilt, ha organizzato un flashmob contro il femminicidio. La manifestazione chiede alle istituzioni di fermare la spirale di violenza che miete, in media, una vittima ogni tre giorni. Sempre più donne vengono uccise dai loro compagni, fratelli, mariti. Nel 2011, in Italia si è assistito a un’impennata di casi. Si è passati da 127 nel 2010 a 137 nell’anno scorso. “Bisognerebbe potenziare i fondi a disposizione – suggeriscono gli organizzatori dell’iniziativa – avviando una campagna informativa che vada oltre i pregiudizi e gli stereotipi di genere” (da Repubblica.it)

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Picchiate, rinchiuse, uccise, suicidate. “Le donne calabresi se lo meritano”

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da La 27esimaora – Corriere.it

Qualche giorno fa è stato sferrato un altro colpo alla ‘ndrangheta di Rosarno, il paese della provincia di Reggio Calabria noto per la rivolta dei migranti. Dopo l’arresto di Francesco Pesce, i carabinieri hanno individuato e incarcerato sette affiliati della famiglia. Sono stati scoperti grazie alle riprese delle videocamere di sorveglianza con cui il boss aveva circondato il perimetro della casa dove si nascondeva. Qualcosa di molto simile a una grottesca legge del contrappasso. E una bella notizia che restituisce sempre un pezzetto di dignità in più a quelle morti, a quelle vittime innocenti cadute per mano di quella che certamente è una delle cosche più sanguinarie della ‘ndrangheta.

La storia della famiglia Pesce è infatti la dimostrazione che non esiste nessun “codice d’onore” a muovere le azioni di questi uomini: la violenza efferata e i crimini di cui si sono macchiati – di generazione in generazione – non ha risparmiato nessuno.

Esiste solo l’interesse, il potere e la vendetta per chi osa sbarrare loro la strada. Non c’è nessuna etica nella ‘ndrangheta e nelle mafie. La bufala storica per cui gli uomini d’onore risparmiavano le donne e i bambini è stata finalmente svelata, oggi nessuno può più crederci.

Perché l’elenco nel corso del tempo si è fatto lungo e perché finalmente i nomi e le storie delle donne uccise stanno uscendo fuori. Lo dimostra la vicenda incredibile e drammatica di Annunziata Pesce, una giovane donna uccisa nel 1981 e di cui s’è saputo solo un anno fa. A decretare la sua fine è stato lo zio boss.

Storie come abbiamo già affrontato su la 27ora: con l’appello a “non lasciare sola” Denise, la figlia di Lea Garofalo. O con il racconto di Giusi Fasano che ha raccontato le “donne anti-sistema

A ucciderla suo cugino, davanti a suo fratello. Aveva una colpa Annunziata, imperdonabile: s’era innamorata di un carabiniere. Un’onta che la cosca non poteva accettare. A tal punto da doverla eliminare e da dover cancellare persino la sua memoria. Per sempre. Finché un’altra donna, sua cugina Giuseppina Pesce, diventata collaboratrice di giustizia, ha deciso parlare e di raccontare quella storia.

Una storia che lei conosceva perché in famiglia la minacciavano di farle fare la sua stessa fine.

Ha resistito alle minacce, Giuseppina. E con le due dichiarazioni sta assestando colpi micidiali alla sua famiglia. Un’altra giovane donna di Rosarno aveva iniziato lo stesso percorso: si chiamava Maria Concetta Cacciola. Una donna di un’altra famiglia mafiosa di Rosarno, i Bellocco.Anche lei ha iniziato a collaborare e a colpire il clan. Poi non ha retto. E nessuno potrà dimenticare la sua voce straziante mentre registrava una dichiarazione (che le sarebbe stata estorta) in cui rettificava tutte le denunce nei confronti della sua famiglia per il terrore di non potere vedere mai più i suoi tre figli. Abbiamo ascoltato tutti quando ormai era troppo tardi, quando Maria Concetta era già stata suicidata dalla sua famiglia. E’ morta ingerendo acido. Lo stesso acido che aveva bevuto per uccidersi una donna della ‘ndrangheta di Vibo Valentia che aveva deciso di collaborare come Tita Buccafusca.

L’acido invece è il protagonista di un’altra storia incredibile, la storia di Lea Garofalo che, secondo la sentenza di primo grado, è stata interrogata, uccisa e sciolta nell’acido in provincia di Milano dal suo ex compagno, e padre di sua figlia, per avere deciso di collaborare con la magistratura.

Ma commetteremmo un errore se pensassimo che è solo questo tipo di tradimento a non essere concepito dalla ‘ndrangheta.

È di qualche giorno fa anche la notizia dell’arresto di parte della famiglia Lo Giudice di Reggio Calabria: sono accusati di avere ucciso nel 1994 Angela Costantino. Angela – 25 anni e già 4 figli – ha sposato il boss Pietro Lo Giudice. Viene uccisa perché si è permessa di avere una relazione extraconiugale mentre suo marito era in carcere. E forse non è un caso se oggi si teme che abbia fatto la stessa sorte anche sua cognata, Barbara Corvi, sposata con un altro esponente della famiglia Lo Giudice, Roberto. Di lei non ci sono più notizie dal 2009.

E’ un elenco interminabile quello delle donne uccise dalle mafie. Noi dell’associazione daSud abbiamo provato a mettere tutte insieme le loro storie.

Abbiamo scoperto che sono più di 150 le donne assassinate, la prima – Emanuele Sansone – addirittura nel 1896.

Abbiamo fatto un dossier dal titolo “Sdisonorate – le mafie uccidono le donne”. cliccate qui entrare ne sito e  sfogliare le pagine del dossier

È la prima volta che accade, nel tentativo di non dimenticare queste vittime e di avviare una discussione pubblica sulla relazione donne-mafie. E’ però anche un modo per svelare la doppia ipocrisia – malavitosa e sociale – nei confronti delle donne che condanna la violenza ma che fa classifiche sulle ragioni che l’hanno determinata.

Sono molte le ragioni degli omicidi delle donne da parte delle mafie:sono morte per l’impegno politico, sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire.Spesso sono definitite “intoccabili” le donne, eppure proprio questa è la ragione per cui vengono prese di mira: come vendicarsi se non colpendo proprio loro, le donne degli “altri”: madri, mogli, fidanzate, sorelle. E poi c’è l’omicidio “passionale”: quello che socialmente tutto sommato ha un senso.

È più innocente la donna che passava per caso da una strada e si è beccata una pallottola vagante in testa di quella che ha tradito suo marito?

Per dare una risposta a questa concezione stanno tutte insieme queste storie: perché sono tutte morti riconducibili ad una causa originaria e cioè il sistema criminale e socio-culturale delle mafie. Che, in fondo, non fanno altro che riprodurre un modello patriarcale, sessista, machista che appartiene alla società e che non è arcaico ma ahimè ancora contemporaneo.

Purtroppo a confermare questa tesi ci vengono ancora una volta in aiuto i numeri sul femminicidio in Italia che – tra carnefici e vittime – non conosce età, o classe sociale, o provenienza geografica. Sono già 45 le donne uccise dai propri compagni ed ex compagni nel 2012. Con una media annuale che si attesta sul centinaio.

Numeri incredibili. Eppure lo capisci subito, parlando con la gente, cheancora certi processi sociali sono tollerati. Che ha anche un’altra faccia della medaglia: un altro disvelamento che abbiamo cercato di fare con questo lavoro è quello che vede protagonisti “giusti” gli uomini.

Quando in Calabria un uomo viene ucciso perché si è ribellato, ha denunciato, si è rifiutato al ricatto della ‘ndrangheta è doppiamente vittima: parte nei suoi confronti un’opera scientifica di discredito. Come? Si sparge in giro la voce che non è vero che è stato ucciso perché si era opposto alla criminalità organizzata ma che è stato ammazzato per “questioni di donne”. Un modo per depotenziare il suo operato, per infangare il suo nome, per

rendere più giustificabile l’assassinio. In fondo, se l’è meritato!

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La fortuna di non essere uccise

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Ci sono dei numeri che non fanno notizia. Sono tanti in Italia. Sono quelli dei morti sul lavoro, quelli delle vittime delle mafie, quelli indefiniti dei migranti annegati in mare. E poi ci sono quelli delle donne ammazzate: solo nel 2012 sono già arrivate 45. Di queste donne non si sa praticamente nulla: se ne parla poco e male. Ancora adesso autorevoli giornali, quando devono dare per esempio la notizia dell’ennesima ragazza uccisa dall’ex fidanzato, titolano “per motivi passionali” o “per gelosia”.

Se poi ci spostiamo in televisione la situazione peggiora notevolmente. Le trasmissioni di approfondimento politico non affrontano mai il problema come questione strutturale, ma mettono intorno a un tavolo le forze politiche soltanto davanti a una violenza “straordinaria” (caso Reggiani) determinando così un’attenzione esclusiva e mai di sistema. Il più delle volte vengono chiamate a discuterne solo le donne (meglio ancora se in occasione dell’8 marzo) come se fosse un problema che investe solo loro. Si mettono insieme donne di aree politico-culturali diverse: uno schema che serve a sostenere che, davanti alla violenza sulle donne, la battaglia è comune e non si fanno differenze fra destra e sinistra.

Come se affermare che la famiglia è il luogo in cui avvengono maggiormente le violenze o invece che la violenza si consuma per strada e per mano migrante sia la stessa cosa. Come se questo punto di partenza sia irrilevante nella costruzione di un’azione politica. Come se per sconfiggere la violenza non sia importante fare un’analisi corretta. Un’ipocrisia politica al femminile che in questi anni ci ha fatto fare passi indietro e non in avanti.

Peggio dell’approfondimento politico, ci sono i programmi di attualità caratterizzati dalla presenza di “opinionisti”. È lì che si consuma il male assoluto: la violenza diventa una soap opera durante la quale è possibile tirare fuori tutta l’ignoranza e la barbarie insita nella pancia del Paese. “Nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un essere umano”, e fin qui ci siamo. Poi però si va a scavare nell’esistenza di lei, si definisce lui “un ragazzo che l’amava troppo”. E si va avanti rivolgendo al pubblico da casa domande del tipo: “Uccidereste per gelosia?”. Tutto affrontato con una leggerezza sconcertante come se non fossimo davanti a una morte reale, ma sempre dentro una fiction.

Anzi, in questo caso, la fiction andrebbe salvaguardata. È il caso, per esempio, della nuova miniserie tv “Mai per amore”, prodotta per la Rai dalla società di Claudia Mori, rinviata per mesi senza un perché nonostante sia un tentativo utile di far capire come la violenza non è una questione “romantica” o di “sicurezza”. La violenza è una questione politica e di sicurezza culturale.

E non essere ammazzate è una questione di forza o di fortuna. La forza è rappresentata dalle donne che denunciano i propri aguzzini prima che si arrivi all’atto definitivo, che è la morte fisica e psicologica. Ed è una forza vera: non è facile capire quello che ti sta succedendo e poi affrontare il contesto in cui portare avanti il tuo processo di liberazione sia dal punto di vista legale che sociale.

Proprio per questa ragione la politica dovrebbe vergognarsi dell’abbandono in cui lascia tante donne che decidono di fare questo percorso. Lasciare che chiudano i centri antiviolenza è essere complici di questo sistema. Non dare rappresentanza alle donne è essere complici di questo sistema. Non fare nulla per inserire le donne nel mercato del lavoro è essere complici di questo sistema. È tutto collegato. E la responsabilità della politica è enorme: non ha garantito nessuna tutela e ha peggiorato in maniera inconfutabile le nostre condizioni di vita.

È vero che la violenza – agìta e subìta – non conosce classe sociale, livello di erudizione, età e nazionalità. Ma è altrettanto vero che dentro questo meccanismo non si possono non rilevare azioni concrete che mettono sempre più a rischio la condizione femminile. La minaccia economica, per esempio, continua a essere uno degli strumenti più diffusi per non permettere alle donne di andare via. L’immagine svilita della narrazione politica del corpo delle donne, da sinistra a destra, ha accentuato e giustificato il comportamento di sopraffazione.

Una conferma di tutto questo ci arriva ancora una volta dai numeri: aumentano infatti le violenze fra le giovani generazioni e la maggior parte delle uccise quest’anno non aveva superato i 35 anni. In tempi di crisi, l’umanità che ci troviamo di fronte è un’umanità abbrutita, di sconvolgimento dei ruoli. Se da una parte lo stato di precarietà avvicina i ragazzi e le ragazze e li mette nelle condizioni di ragionare intorno ad un’idea indifferenziata di cittadinanza, dall’altra parte la condizione “nuova” per i giovani uomini di non rispecchiare il modello materiale del padre – il ruolo che gli è sempre spettato nella società – porta con sé un lutto senza elaborazione con dentro un grande carico di violenza. Oggi l’unica “cosa” che puoi possedere è un’altra persona.

E chi subisce non è così lontano da questa logica: forse ti convinci davvero di essere la “cosa” più preziosa, la “cosa” che può arrivare al punto di farlo impazzire. Ci tiene così tanto a te da perdere il controllo delle sue azioni. Chi ti ha mai desiderata così tanto? La dipendenza psicologica che si crea è talmente forte da non distinguere più il bene dal male, l’amore dalla violenza. È difficile per chi lo vive, difficile per chi ti guarda. Troppe volte ho sentito utilizzare espressioni del tipo: “Ma perché non se ne va?”, “Se la sta cercando”. Fino a quando questa dimensione non ce l’hai accanto a te o ti attraversa non riesci a capirla.

Come si spiega la paura? È consapevole e inconsapevole? Come ci si difende dalla violenza sociale di chi ti guarda e pensa che è colpa tua? Non sono interrogativi personali, non è una dimensione intimista: a queste domande dovremmo rispondere tutte e tutti, a queste domande dovrebbe dare una risposta – finalmente – la politica.

Nessuno di questi temi è neutro. Per questa ragione non può che caratterizzarsi a partire da qui oggi un soggetto politico di Sinistra. Quello di genere, della violenza maschile sulle donne non è un settore, non è e non deve essere un “dipartimento” dentro l’apparato di partito. Di più: non è nemmeno una commissione alle pari opportunità. Voglio fare un esempio concreto. La prima legge sullo stalking in Italia l’abbiamo avuta grazie al ministro delle Pari opportunità del Governo Berlusconi, Mara Carfagna. La battaglia cominciò nella XV legislatura ed era stata promossa dalle parlamentari del centro-sinistra, ha visto la luce da un Governo e da una donna di destra. Oggi, grazie a quella legge, le donne possono denunciare.

Ma questa vicenda e questo Governo ci confermano anche che la politica non è affatto neutra e che bisogna guardare alla complessità della politica delle donne e degli uomini. Perché è sempre lo stesso Governo Berlusconi, con Mara Carfagna in carica, ad avere rinserito le dimissioni in bianco, portato l’occupazione femminile ai minimi storici soprattutto al Sud, smantellato il diritto allo studio, demolito qualsiasi forma di welfare esistente. Ecco perché o le pari opportunità le concepiamo come azione che interviene in tutti gli ambiti dell’esistenza, oppure l’azione sarà sempre limitata a quella che in questo Paese viene considerata una vertenza di una parte e non di tutte e tutti. Noi che vogliamo fare?