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La prossima potrei essere io

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Cinquantacinque nomi di donne vittime di violenza. Cinquantacinque cartelli più uno con su scritto: “La prossima potrei essere io”. In piazza Montecitorio, a Roma,  la rete di collettivi di sinistra, Tilt, ha organizzato un flashmob contro il femminicidio. La manifestazione chiede alle istituzioni di fermare la spirale di violenza che miete, in media, una vittima ogni tre giorni. Sempre più donne vengono uccise dai loro compagni, fratelli, mariti. Nel 2011, in Italia si è assistito a un’impennata di casi. Si è passati da 127 nel 2010 a 137 nell’anno scorso. “Bisognerebbe potenziare i fondi a disposizione – suggeriscono gli organizzatori dell’iniziativa – avviando una campagna informativa che vada oltre i pregiudizi e gli stereotipi di genere” (da Repubblica.it)

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I giovani

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“I giovani, i giovani sono venuti a cercarmi ma io non ero in casa” questo cantavano i Diaframma nel 1994 mentre gli Afterhours  nel 1997 urlavano “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”.
Erano appunto gli anni novanta, prima di Genova 2001, per molti di noi l’adolescenza, per tanti altri la preistoria. Allora il primo problema è questo: chi sono i “ragazzi di oggi” in Italia?  Per la prima volta una generazione diventa tale non per un dato anagrafico ma per una condizione esistenziale. La precarietà del lavoro crea uno spazio atemporale in cui dentro ci sto io e ci sta mia sorella minore e mia sorella maggiore. Per carità bellissimo stare in famiglia ma c’è un momento in cui l’emancipazione non la si desidera solo dai propri genitori. Perché se è vero che siamo uniti dalla difficoltà e altrettanto vero che siamo divisi dalle differenze dei nostri corpi e dei nostri visi e da formazioni culturali e politiche diverse.
La nostra condizione sociale non ci rende uguali ma semplicemente vicini. E questo inevitabilmente influenza le analisi che facciamo di noi stessi, le denunce alla politica, le rivendicazioni, le pratiche da utilizzare per manifestare tutto questo. Il 9 la street parade “Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta” ha cercato di unificare questi mondi. Un obiettivo ambizioso che in parte è stato centrato e che in parte, mi sento di poter dire, è rimasto sospeso. Ma come è stato detto più volte dal camion del comitato promotore e dal palco del Colosseo, questa manifestazione non voleva essere altro che l’inizio di un percorso quindi dalla sospensione si potrà passare alla ripresa. Io penso che ci fosse tra di noi la necessità di dichiarare la messa a sistema di una condizione lavorativa ed esistenziale, esprimere all’esterno che non abbiamo intenzione di viverci più nelle nostre solitudini ma che abbiamo creato un luogo in cui diventare forza comune. I giovani è chiaro stanno dappertutto, non parlano certo oggi per la prima volta, ma la novità risiede nel fatto che dichiarano senza alcun mascheramento di essere i soggetti e gli oggetti del loro agire politico. Questo elemento che ha creato forza, consenso, aggregazione fra i ragazzi ha secondo me una controindicazione quella di rischiare di diventare “vittime di noi stessi”.
Intanto bisogna ammettere che il più delle volte quando parliamo di precarietà ci rivolgiamo sempre allo stesso target di giovani, quelli che hanno studiato, che si sono laureati, specializzati, masterizzati e che non trovano lavoro o che vengono sfruttati. Io rientro in questa categoria però non posso non notare che i giovani stanno anche da altre parti, per esempio nelle fabbriche o nei centri commerciali o ancora che tanti miei coetanei, ma anche molto più giovani di me, sono impiegati nei campi del sud Italia, lo stesso sud da cui noi andiamo via, e in cui loro arrivano per essere sfruttati e considerati clandestini. Anche l’emigrazione nella disperazione può essere considerato un lusso. Un lusso che tanti ragazzi come noi in questo momento non possono avere. Lo so benissimo che alla manifestazione una parola buona si è avuta per tutti ma è innegabile che tutto è concentrato su una rivendicazione che parla poco degli invisibili totali. Un movimento difficilmente può arrivare a tutti, a me basterebbe però che ci fosse l’esercizio di una pratica che dal partire da sé riuscisse a guardarsi intorno per elaborare nuove consapevolezze e anche una dichiarazione di onestà. Forse adesso è arrivato il momento di rivendicarsela la precarietà più che continuare a dire di subirla, forse adesso è arrivato il tempo di tirare fuori un orgoglio precario, di ammettere che le nostre vite non lo inseguono più un contratto a tempo indeterminato e che quello che vogliamo sono delle tutele, delle garanzie. È raro che oggi ti venga offerto un contratto a tempo indeterminato eppure ho visto miei coetanei entrare in crisi davanti alla scelta di firmare. La sicurezza di un lavoro che non ti piace contro la precarietà di quello per cui provi passione. Va bò direbbe qualcuno che non si vive questa condizione, puoi sempre firmare e poi licenziarti. No, perché sai bene che quel lavoro diventerà una gabbia, perché diventerai un privilegiato, uno dei pochi ad avere uno stipendio pagato ogni mese, le ferie, le malattie, la tredicesima… insomma come fai poi a rinunciare a tutto questo! La rivoluzione deve partire dall’offerta del mercato del lavoro, quando si dice che l’Italia è un paese per vecchi, significa esattamente questo. È un paese fermo che disconosce l’investimento in settori che aprirebbero alla realizzazione di tanti di noi. Ma ci si concentra solo su un aspetto perché in questo contesto anche i desideri sono indotti dalla necessità, la felicità è il posto fisso e la maternità una esigenza generazionale, altro elemento che ci porta sempre di più indietro con la lancetta del tempo.
Tutti invochiamo figli che vorremmo avere e che la precarietà ci impedisce di fare. La risposta agli attacchi che abbiamo subito in questi anni è anch’essa frutto di questo sistema politico. Non a caso parlano sempre di “dignità” e quasi mai di libertà della vita. Il reddito oggi diventa lo strumento con cui una generazione può tracciarsi un percorso libero e non indotto, è in questa rivendicazione che io individuo il fattore comune denominatore tra me, mia sorella minore e mia sorella maggiore. Tra me e la commessa, tra me e una operatrice di call center, tra me e ricercatrice dell’università. Al corteo del 9 in tanti l’abbiamo urlato, chi ancora fa finta di non capire o lo dice debolmente senza farlo diventare punto all’ordine del giorno della’agenda politica sono come al solito i partiti. Che discutono di altro e che ogni tanto la tirano fuori questa cosa per poi rimetterla nel cassetto. Questa partita è affidata tutta alla nostra generazione, senza invidie fra di noi e senza idee di autosufficienza. La forza del 9 è stato portare in piazza giovani non tutti riconducibili a strutture organizzate, si è prodotta un’eccedenza che dovrebbe far riflettere anche quelle stesse strutture che l’hanno organizzata ma soprattutto quelle che non erano presenti. È stato un corteo, qui a Roma, vivo, partecipato, colorato, in cui si sono evidenziati alcuni punti. Che non ci sono i professionisti della precarietà, che non ci può essere il copy rite sulle battaglie politiche, che ci sono pratiche e linguaggi nuovi, e che come c’è da fare una riforma enorme nei partiti e nel sindacato forse bisognerebbe iniziare a metterla a tema anche nei cosiddetti “movimenti”.