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La fortuna di non essere uccise

interrotte

Ci sono dei numeri che non fanno notizia. Sono tanti in Italia. Sono quelli dei morti sul lavoro, quelli delle vittime delle mafie, quelli indefiniti dei migranti annegati in mare. E poi ci sono quelli delle donne ammazzate: solo nel 2012 sono già arrivate 45. Di queste donne non si sa praticamente nulla: se ne parla poco e male. Ancora adesso autorevoli giornali, quando devono dare per esempio la notizia dell’ennesima ragazza uccisa dall’ex fidanzato, titolano “per motivi passionali” o “per gelosia”.

Se poi ci spostiamo in televisione la situazione peggiora notevolmente. Le trasmissioni di approfondimento politico non affrontano mai il problema come questione strutturale, ma mettono intorno a un tavolo le forze politiche soltanto davanti a una violenza “straordinaria” (caso Reggiani) determinando così un’attenzione esclusiva e mai di sistema. Il più delle volte vengono chiamate a discuterne solo le donne (meglio ancora se in occasione dell’8 marzo) come se fosse un problema che investe solo loro. Si mettono insieme donne di aree politico-culturali diverse: uno schema che serve a sostenere che, davanti alla violenza sulle donne, la battaglia è comune e non si fanno differenze fra destra e sinistra.

Come se affermare che la famiglia è il luogo in cui avvengono maggiormente le violenze o invece che la violenza si consuma per strada e per mano migrante sia la stessa cosa. Come se questo punto di partenza sia irrilevante nella costruzione di un’azione politica. Come se per sconfiggere la violenza non sia importante fare un’analisi corretta. Un’ipocrisia politica al femminile che in questi anni ci ha fatto fare passi indietro e non in avanti.

Peggio dell’approfondimento politico, ci sono i programmi di attualità caratterizzati dalla presenza di “opinionisti”. È lì che si consuma il male assoluto: la violenza diventa una soap opera durante la quale è possibile tirare fuori tutta l’ignoranza e la barbarie insita nella pancia del Paese. “Nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un essere umano”, e fin qui ci siamo. Poi però si va a scavare nell’esistenza di lei, si definisce lui “un ragazzo che l’amava troppo”. E si va avanti rivolgendo al pubblico da casa domande del tipo: “Uccidereste per gelosia?”. Tutto affrontato con una leggerezza sconcertante come se non fossimo davanti a una morte reale, ma sempre dentro una fiction.

Anzi, in questo caso, la fiction andrebbe salvaguardata. È il caso, per esempio, della nuova miniserie tv “Mai per amore”, prodotta per la Rai dalla società di Claudia Mori, rinviata per mesi senza un perché nonostante sia un tentativo utile di far capire come la violenza non è una questione “romantica” o di “sicurezza”. La violenza è una questione politica e di sicurezza culturale.

E non essere ammazzate è una questione di forza o di fortuna. La forza è rappresentata dalle donne che denunciano i propri aguzzini prima che si arrivi all’atto definitivo, che è la morte fisica e psicologica. Ed è una forza vera: non è facile capire quello che ti sta succedendo e poi affrontare il contesto in cui portare avanti il tuo processo di liberazione sia dal punto di vista legale che sociale.

Proprio per questa ragione la politica dovrebbe vergognarsi dell’abbandono in cui lascia tante donne che decidono di fare questo percorso. Lasciare che chiudano i centri antiviolenza è essere complici di questo sistema. Non dare rappresentanza alle donne è essere complici di questo sistema. Non fare nulla per inserire le donne nel mercato del lavoro è essere complici di questo sistema. È tutto collegato. E la responsabilità della politica è enorme: non ha garantito nessuna tutela e ha peggiorato in maniera inconfutabile le nostre condizioni di vita.

È vero che la violenza – agìta e subìta – non conosce classe sociale, livello di erudizione, età e nazionalità. Ma è altrettanto vero che dentro questo meccanismo non si possono non rilevare azioni concrete che mettono sempre più a rischio la condizione femminile. La minaccia economica, per esempio, continua a essere uno degli strumenti più diffusi per non permettere alle donne di andare via. L’immagine svilita della narrazione politica del corpo delle donne, da sinistra a destra, ha accentuato e giustificato il comportamento di sopraffazione.

Una conferma di tutto questo ci arriva ancora una volta dai numeri: aumentano infatti le violenze fra le giovani generazioni e la maggior parte delle uccise quest’anno non aveva superato i 35 anni. In tempi di crisi, l’umanità che ci troviamo di fronte è un’umanità abbrutita, di sconvolgimento dei ruoli. Se da una parte lo stato di precarietà avvicina i ragazzi e le ragazze e li mette nelle condizioni di ragionare intorno ad un’idea indifferenziata di cittadinanza, dall’altra parte la condizione “nuova” per i giovani uomini di non rispecchiare il modello materiale del padre – il ruolo che gli è sempre spettato nella società – porta con sé un lutto senza elaborazione con dentro un grande carico di violenza. Oggi l’unica “cosa” che puoi possedere è un’altra persona.

E chi subisce non è così lontano da questa logica: forse ti convinci davvero di essere la “cosa” più preziosa, la “cosa” che può arrivare al punto di farlo impazzire. Ci tiene così tanto a te da perdere il controllo delle sue azioni. Chi ti ha mai desiderata così tanto? La dipendenza psicologica che si crea è talmente forte da non distinguere più il bene dal male, l’amore dalla violenza. È difficile per chi lo vive, difficile per chi ti guarda. Troppe volte ho sentito utilizzare espressioni del tipo: “Ma perché non se ne va?”, “Se la sta cercando”. Fino a quando questa dimensione non ce l’hai accanto a te o ti attraversa non riesci a capirla.

Come si spiega la paura? È consapevole e inconsapevole? Come ci si difende dalla violenza sociale di chi ti guarda e pensa che è colpa tua? Non sono interrogativi personali, non è una dimensione intimista: a queste domande dovremmo rispondere tutte e tutti, a queste domande dovrebbe dare una risposta – finalmente – la politica.

Nessuno di questi temi è neutro. Per questa ragione non può che caratterizzarsi a partire da qui oggi un soggetto politico di Sinistra. Quello di genere, della violenza maschile sulle donne non è un settore, non è e non deve essere un “dipartimento” dentro l’apparato di partito. Di più: non è nemmeno una commissione alle pari opportunità. Voglio fare un esempio concreto. La prima legge sullo stalking in Italia l’abbiamo avuta grazie al ministro delle Pari opportunità del Governo Berlusconi, Mara Carfagna. La battaglia cominciò nella XV legislatura ed era stata promossa dalle parlamentari del centro-sinistra, ha visto la luce da un Governo e da una donna di destra. Oggi, grazie a quella legge, le donne possono denunciare.

Ma questa vicenda e questo Governo ci confermano anche che la politica non è affatto neutra e che bisogna guardare alla complessità della politica delle donne e degli uomini. Perché è sempre lo stesso Governo Berlusconi, con Mara Carfagna in carica, ad avere rinserito le dimissioni in bianco, portato l’occupazione femminile ai minimi storici soprattutto al Sud, smantellato il diritto allo studio, demolito qualsiasi forma di welfare esistente. Ecco perché o le pari opportunità le concepiamo come azione che interviene in tutti gli ambiti dell’esistenza, oppure l’azione sarà sempre limitata a quella che in questo Paese viene considerata una vertenza di una parte e non di tutte e tutti. Noi che vogliamo fare?

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“Ragazze interrotte” anche dal maschilismo di Sinistra.

Il 3 e il 4 marzo alla Casa Internazionale delle donne di Roma si terrà “Ragazze interrotte”, un incontro nazionale promosso dalla Rete delle donne di Sel aperto a tutte e a tutti, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, ai movimenti.
Sono tanti i motivi che ci hanno spinte a organizzare questo meeting: l’esigenza di approfondire quella che definiamo la “crudeltà della crisi” e la necessità di raccontare la precarietà di più generazioni, la richiesta di denunciare la necessità di più rappresentanza e il bisogno di una schietta e libera riflessione sui movimenti passati e recenti. Ma c’è anche altro dietro questo appuntamento, un punto su cui si fatica a discutere perché investe direttamente lo spazio politico in cui ci muoviamo e ci riconosciamo: la sinistra. C’è l’ambizione di mettere in discussione la propria “comunità” su elementi che dovrebbero essere fondativi dello stare insieme per fare politica. Una dimensione scomoda e complessa, che attiene all’analisi, all’azione e alle relazioni.
Non è solo mancanza di attenzione, che pure esiste, alle questioni che storicamente ci mettono al centro della differenza: la violenza, il welfare, la rappresentanza. È piuttosto un’incapacità di sguardo che attraversa tutta la lettura del politico e del sociale. Non si tratta della cessione del potere, quanto piuttosto della trasformazione del potere che la sinistra non è in grado di costruire.
Ecco perché spesso le “quote rosa” o la cosiddetta “parità di genere” viene vissuta dagli uomini e dalle donne come uno strumento ingiusto: perché costringe da una parte e delegittima dall’altro. In questi casi, entrambi invocano la meritocrazia. Una parola che non è mai appartenuta al nostro vocabolario e che esce fuori in relazione alle donne.
E allora, guardando la sproporzione negli organismi dirigenti che sono tutti a maggioranza maschile (quando non viene imposta una norma statutaria), potrebbe apparire inevitabile affermare che gli uomini sono più bravi delle donne. Qualcuna si affannerà nel dire che è una questione di “tempi maschili”, che non permettono un’adeguata partecipazione. È vero, ma sappiamo bene che non è solo questo: la conciliazione non è la soluzione al problema.
C’è invece un timore strutturale che impedisce alle donne di esprimersi liberamente dentro i partiti. Riguarda l’esposizione pubblica, riguarda lo scontro politico interno. Ecco perché diventa più facile essere delle grandi organizzatrici e non delle protagoniste nel sistema. Naturalmente c’è anche chi emerge: sono le più brave o sono quelle che si sono adeguate meglio a un modello maschile? Forse un po’ entrambe le cose. Certo è che non è mai facile. Non è mai facile la partecipazione, non è mai facile lo svelamento.
Riconoscere, ammettere e denunciare la discriminazione di genere quando viene agìta dai tuoi compagni di viaggio, dagli uomini con cui condividi un progetto politico è quanto di più complicato possa esistere in un sistema chiuso come un partito. È una forma di violenza: speri sempre di aver capito male, di aver frainteso, addirittura a volte arrivi a pensare che forse è colpa tua. Non sono pochi i casi in cui la fisicità e la “bella presenza” delle compagne diventano segno di poca autorevolezza e ostacolo allo svolgimento delle funzioni dirigenziali. L’ingenua rassicurazione che viene dagli uomini peggiora le cose: nessuno mette in discussione l’intelligenza, forse però per quel ruolo in quel territorio specifico c’è bisogno di un’immagine più “dura”. Niente a che vedere con la politica.
Avviene anche che chi la discriminazione è in grado di riconoscerla preferisca comunque sacrificarla sull’altare del “potere consolidato” e del “consenso necessario”. Perché schierarsi a favore della bellezza e contro la discriminazione se dall’altra parte c’è tutto quello che serve? Semplicemente perché non è davvero quello che ci serve.
Oggi più che mai la Sinistra ha bisogno di essere alternativa, di essere popolare. Di non rispondere a una logica speculativa che la metta al pari degli altri. L’antipolitica nasce a sinistra, non a destra. E nasce dal disprezzo nei confronti di un modello lontano dalle difficoltà che investono la condizione umana ed esistenziale di tante e di tanti, di troppi in questo Paese.
Il tema dei diritti deve essere al centro della dimensione politica. In questo senso decliniamo la crisi e in questa direzione proviamo a trovare delle soluzioni economiche capaci di sostenere il concetto concreto e non astratto di giustizia sociale. Di tutto questo parlerà “Ragazze interrotte”. All’interno dei workshop di approfondimento e nell’assemblea plenaria che non a caso abbiamo voluto alla presenza del nostro segretario nazionale Nichi Vendola. Con una consapevolezza: la denuncia che parte da noi, dai nostri luoghi del fare politica, non ha la funzione di strappare qualche riconoscimento in più o maggiore rappresentanza. L’idea che sottende questa due giorni è molto più ambiziosa: è l’inizio della costruzione di una nuova sinistra, è la possibilità di rileggere insieme i processi presenti per individuare le prospettive future. È il tentativo di riconnetterci con un mondo che è lì fuori, che non ci aspetta, e che ha bisogno di tutte quante noi.ragazze interrotte
Snoq
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Il popolo rosa

Spesso nel mio partecipare alla politica mi sembra di stare dentro una bolla di sapone. Perché proprio mentre viviamo una fase che imporrebbe un’analisi complessiva dello Stato delle cose e un’accurata generalità, ognuno è impegnato a ragionare su un segmento talmente staccato dalla dimensione organica del problema da trasformarsi in un elemento astratto e anacronistico.
C’è chi si occupa dei “giovani”, delle “donne”, dei “migranti”, dei “gay”. Tutto questo come se non si stesse parlando di umanità, come se i diritti si potessero racchiudere in categorie ascrivibili solo ad alcune persone e ad altre no. Chiaramente l’analisi della società ci evidenzia con esattezza questa privazione, ma l’elaborazione politica dovrebbe immettere nell’azione pubblica la consapevolezza che in realtà di questa privazione siamo tutti vittime. E invece le competenze specifiche di alcuni questioni si trasformano in settori separati dal grande quadro sociale per confinarsi in piccole porzioni di analisi e di rivendicazioni che – proprio perché settoriali – diventano forme di rivendicazione quasi obsolete.
Oggi, più che in altre epoche, non si può non tenere conto dello stato dell’economia e della profonda crisi che sta attraversando il Paese, del livello d’impoverimento accumulato, della disuguaglianza sociale prodotta, dell’inaccessibilità di almeno due generazioni al mercato del lavoro, del peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, della demolizione di qualsiasi forma di garanzia di sopravvivenza statale. Se il quadro in cui ci muoviamo è questo – e purtroppo è questo – la rivendicazione politica di fuoriuscita dalla crisi globale deve portare con sé degli elementi di realtà: deve rispondere a necessità e bisogni veri, impellenti, cogenti. Questo naturalmente non significa non avere una prospettiva, un progetto, un’aspirazione di lungo periodo, significa però che anche il modello futuro si deve costruire rispondente alla modificazione storica in atto (o avvenuta) che obbliga a ripensare alcuni concetti apparentemente intoccabili. La concezione del lavoro, e conseguentemente di welfare, per esempio rientra fra questi: va bene (?) insistere nel chiedere un contratto a tempo indeterminato, ma mentre qualcuno riuscirà in questa faraonica impresa, preoccupiamoci di come la stragrande maggioranza dei giovani, meno giovani e giovanissimi di questo Paese possano campare adesso prima ancora che domani. La precarietà non tutelata – quindi evocata in tanta propaganda partitica, delegata alla “questione giovanile” e demandata anche nelle piazze agli stessi giovani di sempre – rientra esattamente nella politica che non può e non deve essere categorizzata. I giovani sono e stanno da tutte le parti: sono operai, sono professori, sono la manodopera migrante, sono le donne.
Di questo nella convention di Siena del “Se non ora quando” non si è tenuto conto. Una grande partecipazione, un migliaio di donne venute da tutte le parti d’Italia, con in mente la voglia e la consapevolezza di poter (ri)contare qualcosa, di poter determinare scelte e di voler prendere parte alla politica. Bellissimo. Fa un certo effetto in una cornice splendida come quella di Siena vedere tanti volti di donne, tante storie, tanti accenti diversi. Ti emoziona, ti commuove ritrovare in molti sguardi quello di tua madre, ti dispiace non incrociare quello di tua sorella o di tuo fratello.
Perché il primo dato che va sottolineato è proprio questo: a differenza del 13 febbraio – che ci ha visti in piazza tutte e tutti insieme – a Siena la platea era tutta al femminile e con un’età media alta. Non c’erano le trentenni e non c’erano le ventenni. Chiaramente sul palco ci sono state e alcune hanno fatto anche interventi importanti che hanno sottolineato proprio come quella convention non stesse parlando a loro, altre hanno fatto quello che le altre non potevano fare, cioè parlare del web, dei social network e di tutto ciò che attiene alle nuove tecnologie, e altre ancora invece hanno ringraziato per l’opportunità offerta di essere lì. Ma sotto quel palco, in quel prato affollato, intorno alla viuzze invase dai turisti che affacciano per ascoltare e capire, di ragazze non c’era neanche l’ombra. E non stupisce affatto perché l’appuntamento di Siena appunto non parla di noi e non parla con noi.
Tre temi affrontati nella discussione: lavoro, maternità, rappresentanza. Quale lavoro? Quale maternità? Quale rappresentanza? La politica della conciliazione, la battaglia sulle dimissioni in bianco, per esempio, presuppongono il fatto che tu un lavoro ce l’abbia. Decidere perciò di schiacciare la dimensione della discussione politica su questo significa non analizzare la fase in cui versano donne e uomini di questo Paese. Siena, da questo punto di vista, per me ha rappresentato una bolla di sapone che ogni tanto veniva fatta scoppiare da interventi forti – non a caso di giovani – che anziché accoglierli e lasciarli liberi di fluttuare – venivano puntualmente normalizzati.
Un altro aspetto che mi ha colpita è la trasversalità con la destra, anzi più che con la destra bisognerebbe dire con la Perina e con la Bongiorno (perché a me non risulta davvero che sul territorio ci siano donne di Fli impegnate nei comitati Snoq). E comunque ogni qual volta una donna prendeva il microfono ponendo una distanza di visione dalle idee incarnate da queste due “compagne” di viaggio, si veniva bacchettate in nome di una trasversalità necessaria. Addirittura anche dopo l’intervento di Lidia Menapace, peraltro accolta con un’ovazione, si è ritenuto di dovere ancora una volta correggere il tiro. Eppure penso che non ci sia niente di scandaloso nel trovare fuori luogo una metafora imbarazzante come quella usata dalla Bongiorno nel farci capire che la maternità è cosa più difficile che scegliere una borsa Prada o Chanel. Sarebbe il caso, sempre in un’ottica trasversale, che prendesse lezioni di metafore da Bersani.
E penso che non ci sia niente di male che qualcuna abbia sentito l’esigenza di dire alla Camusso, proprio perché le donne non vivono in un’altra dimensione, che ha sbagliato a firmare l’accordo. Si potrà avere un’opinione su questo o dobbiamo parlare solo di maternità? E invece considero inspiegabili alcuni applausi e alcuni fischi a Rosy Bindi. Applausi nel momento in cui esordisce dicendo che non ha mai fatto parte di movimenti femminili e femministi, fischi quando dichiara di voler portare le istanze di quella due giorni dentro il Pd. Inspiegabili gli applausi perché mi sfugge realmente cosa ci sia da valorizzare in una dichiarazione del genere: dovremmo essere a limite noi giovani a sentire il peso di una storia che non abbiamo vissuto e che ci ha condizionate e invece paradossalmente è Valentina, una ventenne di Genova, a dover andare in difesa di quella esperienza della quale in tante lì cercano di sbarazzarsi. Come se bastasse questo per rappresentare il (di)nuovo. Forse prese dagli applausi per festeggiare il quesito referendario sul legittimo impedimento – che, a detta di qualcuna, è stato quello su cui le donne si sono impegnate di più (?) – hanno dimenticato quello sull’aborto e sul divorzio. Quando invece Rosy Bindi esprime totalmente la sua funzione, altrettanto paradossalmente, viene contestata. Il comitato “Se non ora quando” vede al suo interno un evidente presenza partitica e di area culturale di riferimento del Pd, ma dietro la sigla dei comitati questa cosa non disturba. Esplode invece nella rappresentazione istituzionale. La stessa rappresentanza istituzionale che si invoca, che si cerca, che è centrale in tutti i ragionamenti: le donne devono votare le donne, le donne devono confrontarsi col potere, devono contare di più, sono laureate, sono capaci, meritano di non dover fare le commesse (ci ha spiegato un’economista), devono stare dentro le istituzioni. E poi? E poi le fischi, come è stato fatto anche con Livia Turco, nel momento in cui parlano del loro partito.
C’è qualcosa che mi sfugge: mi sfuggiva nei confronti del Popolo viola, mi sfugge nei confronti dei movimenti nati intorno a uomini politici, mi sfugge nei confronti del “Popolo rosa”. Non c’è giudizio in questa osservazione. Anzi, ne scrivo perché colpita, perché interessata a comprendere le cause e le dinamiche. Di una cosa però sono sicura: il 13 febbraio è morto e sepolto. Siena ha aperto un’altra partita vediamo dove porterà.
pubblicato sul settimanale Gli altri
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Monotonia precaria

Il “sobrio” Monti, insieme ad altri esponenti del suo Governo, comincia a registrare  pesanti cadute di stile. Stranamente, direi. Perché non bisogna essere docente della Bocconi per capire che davanti a un Paese in enorme sofferenza determinati toni e l’uso di alcune parole devono essere totalmente bandite. E invece il professor Mario Monti, probabilmente preso dall’insofferenza verso i sindacati o qualche esponente politico che continua a mettere i bastoni tra le ruote nel suo tentativo di salvare l’Italia, ha sbottato. E lo ha fatto su uno dei temi più delicati in questo momento: il lavoro e diritti delle nuove (?) generazioni. Siamo passati dallo “sfigato” di Martone alla “monotonia” di Monti con in sottofondo un leitmotiv comune a tutti i rappresentanti di questo Governo, di Confindustria e di parecchi esponenti del centrodestra che dice: “L’art. 18 non può essere un tabù”.

Fa un po’ ridere sentire questa espressione dopo 16 anni di berlusconismo in cui sono stati abbattuti tutti i tabù possibili, anche quelli del comune senso del pudore. Capisco però che fa comodo fingere che tutto si riduca a una questione ideologica. Il mantra sull’articolo 18 potrebbe essere tranquillamente associato alla “colpa dei comunisti” di belusconiana memoria. Stili diversi, ma la sostanza non cambia. Per far passare la riforma del lavoro si ricorre al fantasma ideologico: quello che frena, blocca la crescita e distrugge quel poco di economia rimasta. Loro sono quelli consapevoli, responsabili, con una mission impossible da portare avanti, noi siamo esattamente il loro contrario, con in più un aggravante: siamo “politici”, cioè quelli che non si possono permettere di parlare. E poco importa se abbiamo governato o eravamo all’opposizione, se siamo dentro o fuori il parlamento, il punto è: siamo tutti uguali, siamo tutti Luigi Lusi.

Purtroppo tuttavia, bisogna ammetterlo, non hanno tutti i torti a essere nauseati da questa classe dirigente che, anche quando non è ladra, non sembra rendersi conto di quanto sia comunque privilegiata. Bene ha fatto Maurizio Crozza nel rivolgersi a Giovanna Melandri che non voleva tagliarsi lo stipendio da parlamentare perché considera questa misura “populista” che sostenere una cosa del genere è una “stronzata”. Il populismo c’è eccome, ma non può essere il parafulmine a una situazione oggettiva di benessere economico rispetto a un Paese che sta sprofondando. Allarghiamo i tagli anche ad altre categorie, e non solo alla politica. Ma che ognuno faccia la propria parte.

Compresi i giovani che non sono spettatori inermi in questa discussione, ma che hanno la possibilità di intervenire e agire conflitto dinanzi a una prospettiva che non migliora le proprie condizioni di vita. L’abbiamo fatto in passato, lo dobbiamo fare a maggior ragione adesso davanti a un governo che per la natura con cui è stato nominato trova un consenso trasversale in parlamento, compiacimento nei poteri forti e speranzosa attesa in buonafede tra la gente che fa sacrifici a causa dell’incubo recessione. Gli unici che possono determinare uno svelamento siamo noi giovani, veri e presunti. Ventenni, trentenni e quarantenni, che un lavoro non ce l’abbiamo e se ce l’abbiamo è precario insieme alle lavoratrici e ai lavoratori che rischiano di non averlo più. In questo senso l’11 febbraio, la manifestazione della Fiom, diventa una tappa fondamentale della messa in discussione di un modello che non risolve i problemi e annulla i diritti.

Detto questo, le responsabilità non stanno sempre altrove. L’attacco in questi anni ai cosiddetti giovani è stato talmente pesante che l’atteggiamento che abbiamo assunto è stato di totale difesa di un mondo che forse davvero non ci appartiene più, se mai ci è appartenuto. La legge Treu è del 1995 e in questi anni la precarietà ci ha cambiati. Lo abbiamo detto fino allo svilimento: ci ha cambiati anche dal punto esistenziale, non è solo materialità della vita, è pensiero, è comportamento. Questo non può essere vissuto come senso di colpa. È stata conseguenza non voluta, certo. Tuttavia dentro questa dimensione, la precarietà non va solo subita ma agita. Nella crisi crolla il modello che abbiamo conosciuto attraverso i nostri genitori. Bene (?). Vorrà dire che ci dovremo attrezzare per costruirne uno nuovo, che non insegua più quello ma che nasca da ciò che siamo adesso e non dalla proiezione di quello che saremmo dovuti essere.

Se ci raccontiamo da sfigati è difficile che poi qualcuno non si senta autorizzato a definirci così. Bisogna battersi per una società che sia messa nelle condizioni di poter decidere, decidere di firmare un contratto a tempo indeterminato con le garanzie e le tutele che questo comporta e decidere di firmare un contratto a tempo determinato avendo salvaguardati gli stessi diritti. Fermarsi e sapere che comunque c’è un reddito che in attesa di occupazione ti permetterà di non fare la fame. Bisogna difendere il posto fisso, ma ammettere senza vergogna che molti di noi quel posto fisso non lo vogliono più.

Dalla precarietà nasce un nuovo diritto di cittadinanza che dobbiamo rivendicare come nostro fino in fondo perché basato su un’idea di giustizia sociale. La politica e i sindacati ragionano ancora per compartimenti stagni: modalità comprensibile quando si tratta di difendere il lavoro esistente, fuori dal tempo se si deve ragionare di crescita e di nuova occupazione. Bisogna fare i conti con questa trasformazione sociale, non nasconderla e adattarla. Denunciamo le storture di questo sistema, ma non per fare spazio a noi stessi. Piuttosto per decostruirlo totalmente, e ricostruirlo rispetto alle nostre esigenze. Non voglio prendere il loro posto, voglio un posto nuovo. Che sia dentro la politica, la scuola, l’università, la fabbrica anche fin dentro le mura domestiche. Ieri un’amica ricercatrice universitaria mi raccontava di non avere un posto, una scrivania dove poter scrivere e lavorare perché gli uffici sono ancora occupati dagli ordinari in pensione che, alla tenera età di 75 o 80 anni, hanno piacere la mattina di farsi un giro in ateneo e continuare a esercitare il loro potere di baroni. Io spero tanto che la mia amica possa prima o poi entrare in quell’ufficio, ma mi auguro pure che finita la sua esperienza vada via e non faccia parte di quel sistema perché insieme a me lo vuole cambiare.

Oggi noi non dobbiamo rivendicare solo l’accesso, ma la costruzione. Qualità del lavoro e continuità di reddito. Quanto pesa oggi licenziarsi da un contratto a tempo indeterminato di un call center? Tantissimo, e infatti il più delle volte non lo fai. Sei lì a doverti considerare un privilegiato quando invece vorresti urlare che non lo sei. “Io non ci sto”, ci ha ricordato un difensore della Costituzione attraverso la sua morte. Basta essere depressi, ora è tempo di essere rivoluzionari.