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Femminicidio

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Da Rivista di Scienze Sociali
Numero 41 Luglio 2012 – Studi Di Genere

Femminicidio: è una parola che utilizziamo da anni, che abbiamo scritto tante e tante volte per denunciare quello che accade in Italia e in altri Paesi, per informare e far capire che quello che avviene intorno a noi non è un caso, non è il frutto di un raptus di follia, non è passione, non è gelosia, non è amore. Sembra non essere chiaro per nessuno: per la cosiddetta società civile, per i media, per la politica.

Sappiamo che alcune parole spiazzano o fanno paura per le consapevolezze che evocano, per le responsabilità che denunciano. “Femmicidio” e “femminicidio” rientrano senz’altro in questo vocabolario apocrifo. La prima è poco utilizzata, la seconda negli ultimi anni ha trovato più spazio anche in Italia, ma entrambe in realtà descrivono processi storici quotidiani e su entrambe avremmo dovuto superare già da tempo la discussione sulla pertinenza del loro utilizzo. Invece sono ancora circondate da molta confusione e sono per motivi diversi inesorabilmente sotto attacco.

Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della sera” ha scritto recentemente che il termine “femminicidio” suona cacofonico e molti a sentirlo storcono il naso, perché rimanda all’idea sprezzante della parola latina femina, l’animale di sesso femminile. Forse è così, ma andrebbe ricordato che il grande linguista Sapir spiegava che la durezza o la cacofonicità delle parola sta nella mente del parlante piuttosto che nel suo suono e, soprattutto, andrebbe ricordato che cosa ci sia dietro l’invenzione e l’uso di quella parola, un neologismo scaturito da una scelta politica ben orientata: la categoria criminologica del femmicidio ha introdotto un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri”, che consente di rendere visibile il fenomeno, spiegarlo, potenziare l’efficacia delle risposte sanzionatorie e punitive.

Femmicidio e femminicidio, dunque. Il termine “femmicidio” nacque per indicare gli omicidi della donna “in quanto donna”. Non stiamo parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, ma anche delle ragazze uccise dai padri, perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto o il controllo ossessivo sulle loro vite, sulle loro scelte sessuali.

E in questa scia di crimini contro le donne vanno annoverate anche le donne uccise dall’AIDS, contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività. E le prostitute contagiate di AIDS o ammazzate dai clienti, le giovani uccise perché lesbiche e, indietro nel tempo, anche tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo.

Marcela Lagarde, antropologa messicana, sostiene che con la parola “femminicidio” si indica, invece, “un problema strutturale” che va aldilà degli omicidi delle donne, riguardando tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che hanno la forza brutale di annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella “dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica”.

Questa espressione nacque in relazione ai fatti di Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti, dove dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 sono state stuprate, torturate e poi uccise. Ciudad Juarez, come pure Chihuahua, sono territori in cui le donne si recano per lavorare in fabbrica perché, pur se in crisi, le maquilas (grandi aree industriali a capitale internazionale) ancora impiegano oltre 300.000 persone, in maggioranza giovani donne tra i 15 e i 25 anni, che lavorano in condizioni di sfruttamento a linee di assemblaggio aperte 24 ore.

Molte di loro sono state uccise in luoghi diversi da quello in cui è stato rinvenuto il loro cadavere, ma ciò prima del 2001. Da allora, infatti, l’attivismo femminile anche grazie alle ONG, alle commissioni per i diritti umani e alle reti associative è riuscito a obbligare le autorità messicane ad ammettere l’esistenza stessa della questione.

Marcela Lagarde, eletta parlamentare, ha fatto costituire e ha presieduto una commissione speciale parlamentare sul femminicidio, che per un arco temporale di dieci anni ha rielaborato le informazioni reperite presso varie istituzioni, verificando che l’85% dei femminicidi messicani avviene in casa per mano di parenti. È stata approvata una legge organica sul modello spagnolo ed è stata sancita l’introduzione nei codici penali del reato di femminicidio.

L’esempio delle donne messicane ha fatto scuola, ha contagiato gli altri Stati latinoamericani, spingendo le autorità dei diversi Paesi a moltiplicate le indagini ufficiali e non ufficiali, alzare il velo di omertà, complicità, indifferenza sulla quotidiana strage di donne. “Nominare” con il nome di femminicidio, e contare gli atti estremi di violenza di genere, ha determinato l’insorgere di una consapevolezza nella società civile e nelle Istituzioni sulla effettiva natura di questi crimini, ciò a sua volta ha reso possibile una maggiore conoscenza del fenomeno attraverso la raccolta di dati statistici e la predisposizione di accurate indagini socio-criminologiche.

Si è arrivati all’introduzione di nuove leggi sul reato di femminicidio in molti codici penali: in Messico, Guatemala, Costa Rica, Venezuela, Cile, El Salvador, più recentemente in Perù e Argentina. In Messico e Guatemala l’indicazione di inserire nella legislazione nazionale il femminicidio come reato arrivò direttamente dall’ONU, dal comitato per l’attuazione della CEDAW (la convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne).

Quando il 14 luglio 2011 il comitato CEDAW ha fatto richiesta all’Italia di fornire i dati sui femminicidi, il Governo italiano non è stato in grado di fornire tempestivamente questa risposta, semplicemente perché quei dati non erano mai stati raccolti.

Anche qui grazie all’attivismo femminista, utilizzando lo stesso “metodo” delle attiviste messicane, sono stati fatti importanti passi avanti, mettendo in chiaro che la violenza maschile sulle donne è una violazione dei diritti umani e che spetta alle Istituzioni attivarsi per prevenire il femminicidio attraverso un’azione di carattere culturale e un’adeguata protezione delle donne che scelgono di uscire da tutte le forme di violenza, dalla tratta alla violenza domestica. I dati esposti devono aver impressionato il Comitato CEDAW, che, infatti, nelle Raccomandazioni all’Italia si è detto “preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner: un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei loro partner o ex partner”.

È stata la prima volta che il Comitato CEDAW ha parlato di femminicidio in relazione a un Paese non latinoamericano e che ha riscontrato la probabile inadeguatezza delle azioni promosse dalle autorità italiane per proteggere le donne dalla violenza.

Le osservazioni del Comitato CEDAW hanno colto un punto dolente delle relazioni tra donne e uomini nel nostro Paese e del rapporto tra lo Stato e le sue cittadine.

Ma non basta appellarsi, come pure è necessario, ai doveri delle istituzioni e dei poteri pubblici, occorre un di più da parte della politica, della cultura, della società in tutti i suoi ambiti, della scuola a tutti i livelli.

Bisogna trovare la strada per svelare efficacemente tutti gli aspetti del problema, richiamare alla loro responsabilità soprattutto gli uomini, quelli che hanno ruoli pubblici, ricoprono cariche di prestigio e occupano luoghi di eccellenza. Ma anche quelli con cui si condivide l’avventura della vita, la passione della politica, la condivisione di qualche progetto. Che loro escano dal silenzio non è certo la soluzione definitiva del problema, ma fa parte di ciò che può concorrere potentemente a fare passi importanti per cambiare le cose.

“Niente è come sembra. Non è amore ma assassinio”: questo il testo di un recente manifesto di “Ragazze Interrotte” per Sinistra Ecologia Libertà. Un modo chiaro per mettere in evidenza dove nasce la violenza e dove bisogna intervenire. Bisogna fare i conti con questo, con il nostro mondo non con quello che pensiamo appartenga sempre agli “altri“.

Noi, la cosiddetta “società civile”, quella che non si tira mai indietro se c’è da firmare un appello, che scende in piazza, che inorridisce davanti alla morte di una ragazza come Vanessa, che poi però – con la stessa scioccante convinzione si lascia andare a insulti violenti nei confronti delle donne che non conducono vite “appropriate”, che, secondo la barbara logica dominante, avrebbero una condotta che favorirebbe la violenza.

Insomma se muore una ragazza di vent’anni, buona e amata da tutti, si merita lo status di vittima, se una prostituta è uccisa forse un po’ meno.

È esattamente questo il meccanismo che alimenta la violenza: sostenere l’idea che se fossimo tutte sante non correremmo dei rischi, vuol dire dichiarare l’esistenza di una colpa che giustifica l’atto violento.

Lo sanno talmente bene gli uomini che questo è uno strumento potente, che lo agiscono in maniera sistematica nel percorso violento, quel percorso che porta fino al gesto finale. È un crescendo di accuse, di trasmissione di senso di inadeguatezza, di un continuo ripetere che sei una puttana perché hai guardato, fatto, pensato a qualcun altro.

Un meccanismo, non lo smetteremo mai di ribadire, che può essere messo in atto da chiunque e che chiunque può subire. Proprio per questa ragione la violenza va affrontata per quella che è: nella sua portata e nella sua complessità, senza cadere nei tranelli ignoranti, bigotti e giustificazionisti a cui questo Paese ci ha abituati.

L’assassino di Vanessa l’ha capito bene come funziona l’Italia: è evidente nel momento in cui ci svela il motivo del suo “raptus”: in un momento intimo, non in un momento qualsiasi, ci spiega, Vanessa l’ha chiamato con il nome del suo ex. Se ci aggiungiamo un po’ di cocaina la spiegazione è bella e data.

Nei primi mesi di questo 2012 le vittime da femminicidio sono arrivate a 54 e tutti sembrano stupirsi. Ècresciuta l’attenzione mediatica, si sono moltiplicate le manifestazioni di stupore. Gli ammazzamenti di donne non sono una novità, diciamo noi, ma meglio tardi che mai. Che fare allora perché il momento mediatico messo in campo dal “Se non ora quando” non si esaurisca nell’arco di pochi giorni? Ci sono nomi importanti come quello di Saviano (che addirittura trasforma la notizia della denuncia al femminicidio in “Saviano che firma l’appello contro il femminicidio”), che dovranno servire a tenere alta l’attenzione, provando per una volta a tenere ferma l’attenzione sui temi veri di questo Paese, a partire dalla stampa che nei 18 anni di Berlusconi ha dato il peggio di sé, che s’è concentrata in condanne di bunga bunga, di Ruby e ancora adesso della Minetti, con gli stessi svilenti strumenti utilizzati dalla cultura berlusconiana. E tutto questo senza che sia mai stata prodotta un’inchiesta seria sul femminicidio in Italia. Ci sono stati soltanto brevi spot davanti all’ennesima vittima, ma solo se giovane, bella e quindi strappalacrime.

E infine un appello alla politica tutta, dal centrodestra al centrosinistra, che ha firmato in massa l’appello del Snoq e che finora ha prodotto soltanto denunce ipocrite nella battaglia sul corpo delle donne. Alcuni esempi per tutti: la governatrice del Lazio Renata Polverini conosce lo stato in cui versano i centri antiviolenza nella sua Regione? Non costa nulla mettere una firma, molto più difficile è amministrare coerentemente davanti a ciò che si considera sbagliato e ingiusto. Vogliamo misurarci su questo?

Il segretario del Partito democratico Bersani, anziché dichiarare di augurarsi di avere una figlia come la Fornero, chieda proprio alla ministra del Lavoro con delega alle pari opportunità di fare qualcosa di concreto per le donne, perché siamo private dei più elementari diritti e perchè questo stato di crisi generalizzata fa regredire il Paese non solo economicamente, anche culturalmente e socialmente.

Occorre una cultura dell’ascolto della vittima a partire dal ri-conoscimento che il femminicidio, lo stalking, i maltrattamenti, oltre alla violenza sessuale, sono forme di violenza di genere, rivolta contro le donne in quanto donne. Occorre partire da qui per raccogliere i dati secondo un’ottica di genere, per capire se davvero le donne che chiedono aiuto vengono protette o se, invece, vengono lasciate sole. Spesso infatti mancano i posti letto per accoglierle, perché i fondi sono insufficienti e le case rifugio chiudono; oppure le donne non ricevono informazioni esatte, pensano che se denunciano non possono avere protezione, perché nessuno le ha informate dell’esistenza degli ordini di allontanamento civile, che consentono di ottenere il mantenimento, oltre che l’allontanamento del coniuge violento.

Succede anche che le leggi esistenti vengano male applicate, oppure che una donna ricada in una condizione di vittima e che il caso non venga adeguatamente valutato; può succedere per tanti motivi come, per esempio, una mancanza di fondi che garantisca una formazione specifica agli operatori professionali. In assenza di una formazione specifica può prevalere, infatti, il pregiudizio del singolo operatore rispetto alla conoscenza del fenomeno, strumento essenziale per contrastare sottovalutazioni misogine.

Inutile dire che i passi avanti in questi anni ci sono stati: l’attenzione alla formazione e alla protezione delle donne che decidono di uscire da situazioni di violenza è sempre maggiore; tuttavia, ancora troppe donne vengono ammazzate perché manca una reazione collettiva e sentita a una cultura assassina, che riporta in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi legati alla virilità, all’onore, al ruolo di uomini e donne nella coppia e nella società.

Per sconfiggere la cultura patriarcale occorre una presa di posizione netta da parte della politica e delle istituzioni e una collaborazione fortissima con la società civile: chiede, infatti, il Comitato CEDAW alle istituzioni, tra le altre misure, di “predisporre in collaborazione con un’ampia gamma di attori, comprese le organizzazioni femminili e le altre organizzazioni della società civile, delle campagne di sensibilizzazione attraverso i media e delle campagne di educazione pubblica, affinché la violenza nei confronti delle donne venga considerata socialmente inaccettabile, e di divulgare informazioni al pubblico sulle misure esistenti al fine di prevenire gli atti di violenza nei confronti delle donne”.

E allora torniamo a ribadire la necessità di azioni rivolte a garantire in concreto alle donne, in quanto donne, il godimento dei loro diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto alla vita e a una vita libera da qualsiasi forma di violenza. In questo senso le pari opportunità si costruiscono insieme, altrimenti la disinformazione annulla i benefici derivanti dalle politiche intraprese; così come i servizi, la professionalità offerta dalle associazioni di donne, dai centri antiviolenza, dal volontariato, vengono vanificati se non possono essere portati avanti nel tempo per il mancato finanziamento da parte delle istituzioni. È un cane che si morde la coda.

Se oggi l’ONU (e di conseguenza l’informazione di massa) parla di femminicidio anche in relazione all’Italia, è perché ci sono state donne che qui e oggi, da anni, hanno reclamato il riconoscimento anche per le donne, in quanto donne, di quei i diritti umani affermati a livello universale e in particolare del diritto inalienabile alla vita e all’integrità psicofisica.

I diritti infatti vivono solo là dove vengono reclamati in quanto tali, altrimenti restano destinati al mero riconoscimento formale, sulla carta. Per l’Italia è una battaglia di civiltà che riguarda davvero donne e uomini, società civile e politica e istituzioni.

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L’ineluttabilità della crisi

GIOVANI-SPAGNOLI
In tempi di crisi, in questa nostra crisi, non è difficile capovolgere l’ordine delle cose. Per rendere possibile ogni provvedimento di questo Governo, ogni posizione politica, ogni scelta sindacale “ineluttabile” basta utilizzare due semplici coordinate: l’Europa e il rischio recessione. L’ineluttabilità può determinare tutto il contrario di tutto. È quello che è avvenuto e sta avvenendo in tema di lavoro: la riforma delle pensioni (è l’Europa a chiedercela) la discussione sull’art. 18 (il rischio è che nessuno voglia più investire in Italia).
Davanti a tutto questo purtroppo l’Italia si riconferma un Paese narcotizzato, anni di Berlusconi non hanno determinato degli anticorpi ma hanno confermato una prassi. Al peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, e all’esasperazione dei ceti poveri, corrisponde un sentimento di ineluttabile rassegnazione resa lieve dalla speranza che questo sacrificio immenso prima poi verrà ripagato. Quello che stupisce non è la fiducia che gli italiani hanno riposto in questo Governo, no quello che stupisce, prima con Berlusconi adesso con Monti, è come gli italiani subiscano in maniera assolutamente passiva la ridefinizione di loro stessi. La politica e l’informazione ad essa legata, segna di volta in volta i desideri, le abitudini, i sentimenti, le aspirazioni di un’intera società. Tutti nessuno escluso, anche chi reagisce negativamente e polemizza con la descrizione che gli viene affibbiata nella funzionalità del provvedimento politico, lo fa rimanendo all’interno del loro stesso schema, attuando di fatto sempre una protesta resistenziale e mai di nuovo immaginario.
Sul lavoro sta avvenendo esattamente questo. Ed è straordinario come i “giovani” riescano sempre a farsi incastrare in un modello o in un anti modello stabilito da altri. Brunetta ci chiamava “bamboccioni” e da quel momento in maniera più pressante che mai è partita la narrazione precaria. In ogni piazza e in ogni racconto strappato da una televisione, partiva la sofferenza di chi non riusciva a progettare un futuro, a costruirsi (?) una famiglia, ad avere una pensione. Tutto molto orientato al domani, poco racconto del presente. Perché la discussione non è su quello che sei e su quello che hai, è su quello che avresti dovuto essere e non avrai mai. Cioè il modello con cui si continua a fare i conti è quello dei propri genitori, il racconto sofferto di almeno due generazioni parte da questa mancanza di opportunità. L’inseguimento di questa chimera ha prodotto l’alibi perfetto alla politica per l’immobilismo e per portare avanti un finto dibattito di riposizionamento degli schieramenti. Da una parte il continuo richiamo alla flessibilità come unico strumento per inserire i giovani nel mercato del lavoro, dall’altro il ritardato tentativo di cambiare tutto per non cambiare niente. Risultato: la flessibilità è diventata solo precarietà senza alcuna garanzia e tutela.
In questo quadro Monti arriva e ci spiega l’ineluttabile. C’è un Paese che ha vissuto nella menzogna, che ha allevato i propri figli in maniera sbagliata, che ha progettato per alcuni di loro un’esistenza che non gli era permesso avere. Quindi oggi per sopperire a questo gap l’unica cosa da fare per venire incontro ai giovani è eliminare i privilegi/diritti dei vecchi per fare più spazio a loro. Ma non finisce qui perché al tecnicismo con cui la ministra Fornero ci propone la riforma del lavoro, dobbiamo aggiungere dei segnali inequivocabili di quella “ridefinizione” di noi stessi a cui facevo cenno prima: lo “sfigato” che ancora a 28 anni non è laureato. Bisogna capire che questa affermazione poi rettificata e per la quale soprattutto la sinistra ha mostrato indignazione, in realtà è già passata, è già patrimonio comune. È come l’operazione razzista della Lega con i migranti. Già vive  l’idea del ragazzo parassita dentro le università che invece di trovarsi un lavoro perde tempo nel conseguire un titolo di studio di cui l’Italia non ha neanche bisogno come una laurea in storia, in lettere… E allora ecco che si mette in atto la macchina difensiva. Una motivazione propagandata dalla sinistra è quella sul diritto allo studio, di quanti giovani per studiare debbano anche lavorare rallentando così inevitabilmente il traguardo. I “giovani” che si sentono toccati dall’esser stati definiti “sfigati” rispondono o con la stessa debole spiegazione o con un’ammissione di colpa a cui però fa sempre capolino una mancanza di redenzione successiva da parte del mercato del lavoro. 1 a 0 per Martone.
Apparentemente autogol per il sobrio Monti: “la monotonia del posto fisso”, perché a differenza del parassita universitario per l’opinione pubblica e per la cosiddetta società civile qualsiasi ragazzo volenteroso in Italia merita di avere un contratto a tempo indeterminato. E allora come tante immaginette arrivano i giovani che potremmo definire: i laureati disposti a tutto. Quelli che dimostrano che non è vero che questa generazione non intende lavorare se non con il proprio titolo di studio, quelli che orgogliosamente raccontano della laurea in scienze politiche trasformata in contratto da banconista al supermercato. Questo racconto serve per dire: “avete visto come sono bravi i giovani in Italia? Non è vero che sono tutti degli sfigati che vogliono stare accanto a mamma e papà!”.
Non voglio essere fraintesa, è chiaro che per campare si fa quel che si può ma quello che mi sento di contestare aspramente è l’idea che un provvedimento politico sistematizzi uno stato di necessità e lo spacci pure come l’unica cosa possibile da fare.
Infine concludiamo questa carrellata giovanilistica con i laureati da mea culpa televisivo: “non avrei mai studiato filosofia se avessi saputo…” per questi manca solo di chiedere perdono in diretta a tutti gli italiani che stanno in ascolto. Cioè siamo di fronte al paradosso per cui il punto non è un Italia ferma da cinquant’anni che non ha fatto investimenti, che non ha prodotto crescita, che non sa cosa sia la riconversione industriale, l’alta tecnologia e la green economy ma il problema è che c’è troppa gente che studia e che studia anche cose inutili.
Questo capovolgimento dello sguardo, del punto di vista, non solo peggiora le nostre condizioni di vita ma distorce anche l’elemento rivendicativo. Noi oggi possiamo decidere di difendere l’art.18, e secondo me è bene farlo, per non permettere che vengano messi a rischio i diritti dei lavoratori ma la verità è che la nostra storia ci parla di altro. Ci hanno spacciato per anni una radicalizzazione del conflitto attraverso l’abrogazione della legge 40 che si è sempre tramutata in un nulla di fatto e mentre si ripeteva ciclicamente questo gioco a perdere la precarietà non è stata più solo contrattuale ma si è trasformata in esistenziale. Non si è tradotta solo in comprensibile vittimismo ma anche in nuova consapevolezza del sé, in un nuovo modo di autodeterminarsi e di concepire i processi sociali. Invece di viverli con senso di colpa alcuni diritti che abbiamo acquisito nello stato di precarietà, dovremmo rivendicarceli non fare finta che non ci siano perché non sono gli stessi che la storia di questo Paese ha conosciuto. Il diritto alla cittadinanza per esempio va oltre il lavoro e noi ne siamo la rappresentazione. Per poterne usufruire fino in fondo la rivendicazione è la richiesta di una continuità di reddito. Questo oggi devono essere capaci di urlare per sé le generazioni che vanno dai 20 anni ai 40. È ingeneroso nei confronti di tutti quei giovani che in questi anni hanno manifestato nelle piazze? Non credo, non lo penso ed io ero lì con loro. I movimenti hanno bisogno di rinnovarsi e di trasformarsi, l’importante è essere entusiasti e non rassegnati al cambiamento, per riuscire a governarlo e non subirlo.
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Niente è come sembra

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Femminicidio. È una parola che utilizziamo da anni, che abbiamo scritto tante e tante volte per denunciare quello che accade in Italia e in altri Paesi, per informare e fare capire che quello che avviene intorno a noi non è un caso, non è il frutto di un raptus di follia, non è passione, non è gelosia, non è amore. Sembra non essere chiaro per nessuno: per la cosiddetta società civile, per i media, per la politica.

Proprio qualche settimana fa “Ragazze interrotte – Sel” ha lanciato in rete un manifesto che ha un’immagine di due mani giovani che s’intrecciano e lo slogan dice “Niente è come sembra. Non è amore ma assassinio”. Un modo chiaro per mettere in evidenza dove nasce la violenza e dove bisogna intervenire. Bisogna fare i conti con questo, con il nostro mondo non con quello che pensiamo appartenga sempre agli “altri“.

Noi, la cosiddetta società civile, quella che non si tira mai indietro se c’è da firmare un appello, da scendere in piazza, da inorridire davanti alla morte di una ragazza come Vanessa. Quella stessa società civile che poi però – con la stessa scioccante convinzione – si lascia andare a insulti violenti nei confronti delle donne che non conducono vite “appropriate”, che – secondo la barbara logica dominante – avrebbero una condotta che favorirebbe la violenza.

Insomma se a morire è una ragazza di vent’anni buona e amata da tutti si merita lo status di vittima, se è una prostituta ad essere uccisa forse un po’ meno.

È esattamente questo il meccanismo che alimenta la violenza. Sostenere l’idea che, se fossimo tutte sante, non correremmo dei rischi vuol dire dichiarare l’esistenza di una colpa che giustifica l’atto violento.

Lo sanno talmente bene gli uomini che questo è uno strumento potente che lo agiscono in maniera sistematica nel percorso violento, quel percorso che porta fino al gesto finale. È un crescendo di accuse, di trasmissione di senso di inadeguatezza, di un continuo ripetere che sei una puttana perché hai guardato, fatto, pensato a qualcun altro.

Un meccanismo – non lo smetteremo mai di ribadire – che può essere messo in atto da chiunque e che chiunque può subire. Proprio per questa ragione, la violenza va affrontata per quella che è: nella sua portata e nella sua complessità, senza cadere nei tranelli ignoranti, bigotti e giustificazionisti a cui questo Paese ci ha abituati. L’assassino di Vanessa l’ha capito bene come funziona l’Italia: è evidente nel momento in cui ci svela il motivo del suo “raptus”: in un momento intimo, non in un momento qualsiasi – ci spiega – Vanessa l’ha chiamato con il nome del suo ex. Se ci aggiungiamo un po’ di cocaina la spiegazione è bella e fatta.

Sono già 54 le vittime di quest’anno. E tutti sembrano stupirsi. Purtroppo, però, non è una novità. Meglio tardi che mai. Adesso però non dobbiamo fermarci: facciamo in modo che questo momento mediatico messo in campo dal “Se non ora quando” non si esaurisca nell’arco di pochi giorni. Ci sono nomi importanti (nomi come quello di Saviano che addirittura trasformano la notizia della denuncia al femminicidio in Saviano che firma l’appello contro il femminicidio!) che dovranno servire a tenere alta l’attenzione. Provando per una volta a tenere ferma l’attenzione sui temi veri di questo Paese.

A partire dall’informazione, che nei 18 anni di Berlusconi ha dato il peggio di sé. Che s’è concentrata in condanne di bunga bunga, di Ruby e ancora adesso della Minetti con gli stessi svilenti strumenti utilizzati dalla cultura berlusconiana. E tutto questo senza che sia mai stata prodotta un’inchiesta seria sul femminicidio in Italia. Ci sono state soltanto piccole cose a spot davanti all’ennesima vittima, ma solo se giovane, bella e quindi strappa lacrime.

E infine un appello alla politica tutta, dal centrodestra al centrosinistra, che ha firmato in massa l’appello del Snoq e che finora ha prodotto soltanto denunce ipocrite nella battaglia sul corpo delle donne. Alcuni esempi per tutti: la governatrice del Lazio Renata Polverini conosce lo stato in cui versano i centri antiviolenza nella sua Regione? Non costa nulla mettere una firma, molto più difficile è amministrare coerentemente davanti a ciò che si considera sbagliato e ingiusto. Vogliamo misurarci su questo?

Il segretario del Partito democratico Bersani anziché dichiarare di augurarsi di avere una figlia come la Fornero, chieda proprio alla ministra del Lavoro con delega alle pari opportunità di fare qualcosa di concreto per le donne. Perché siamo private dei più elementari diritti. E questo stato di crisi generalizzata fa regredire il Paese non solo economicamente ma culturalmente e socialmente.

Allora non piangete Vanessa e tutte le altre. Fate, fate voi che avete gli strumenti. La retorica e le dichiarazioni indignate su twitter non bastano più. Perché dietro le belle parole e le belle adesioni a volte si nasconde il vuoto. Se non si fa nulla di concreto non si chiama solidarietà ma complicità. Già, niente è come sembra.

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Picchiate, rinchiuse, uccise, suicidate. “Le donne calabresi se lo meritano”

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da La 27esimaora – Corriere.it

Qualche giorno fa è stato sferrato un altro colpo alla ‘ndrangheta di Rosarno, il paese della provincia di Reggio Calabria noto per la rivolta dei migranti. Dopo l’arresto di Francesco Pesce, i carabinieri hanno individuato e incarcerato sette affiliati della famiglia. Sono stati scoperti grazie alle riprese delle videocamere di sorveglianza con cui il boss aveva circondato il perimetro della casa dove si nascondeva. Qualcosa di molto simile a una grottesca legge del contrappasso. E una bella notizia che restituisce sempre un pezzetto di dignità in più a quelle morti, a quelle vittime innocenti cadute per mano di quella che certamente è una delle cosche più sanguinarie della ‘ndrangheta.

La storia della famiglia Pesce è infatti la dimostrazione che non esiste nessun “codice d’onore” a muovere le azioni di questi uomini: la violenza efferata e i crimini di cui si sono macchiati – di generazione in generazione – non ha risparmiato nessuno.

Esiste solo l’interesse, il potere e la vendetta per chi osa sbarrare loro la strada. Non c’è nessuna etica nella ‘ndrangheta e nelle mafie. La bufala storica per cui gli uomini d’onore risparmiavano le donne e i bambini è stata finalmente svelata, oggi nessuno può più crederci.

Perché l’elenco nel corso del tempo si è fatto lungo e perché finalmente i nomi e le storie delle donne uccise stanno uscendo fuori. Lo dimostra la vicenda incredibile e drammatica di Annunziata Pesce, una giovane donna uccisa nel 1981 e di cui s’è saputo solo un anno fa. A decretare la sua fine è stato lo zio boss.

Storie come abbiamo già affrontato su la 27ora: con l’appello a “non lasciare sola” Denise, la figlia di Lea Garofalo. O con il racconto di Giusi Fasano che ha raccontato le “donne anti-sistema

A ucciderla suo cugino, davanti a suo fratello. Aveva una colpa Annunziata, imperdonabile: s’era innamorata di un carabiniere. Un’onta che la cosca non poteva accettare. A tal punto da doverla eliminare e da dover cancellare persino la sua memoria. Per sempre. Finché un’altra donna, sua cugina Giuseppina Pesce, diventata collaboratrice di giustizia, ha deciso parlare e di raccontare quella storia.

Una storia che lei conosceva perché in famiglia la minacciavano di farle fare la sua stessa fine.

Ha resistito alle minacce, Giuseppina. E con le due dichiarazioni sta assestando colpi micidiali alla sua famiglia. Un’altra giovane donna di Rosarno aveva iniziato lo stesso percorso: si chiamava Maria Concetta Cacciola. Una donna di un’altra famiglia mafiosa di Rosarno, i Bellocco.Anche lei ha iniziato a collaborare e a colpire il clan. Poi non ha retto. E nessuno potrà dimenticare la sua voce straziante mentre registrava una dichiarazione (che le sarebbe stata estorta) in cui rettificava tutte le denunce nei confronti della sua famiglia per il terrore di non potere vedere mai più i suoi tre figli. Abbiamo ascoltato tutti quando ormai era troppo tardi, quando Maria Concetta era già stata suicidata dalla sua famiglia. E’ morta ingerendo acido. Lo stesso acido che aveva bevuto per uccidersi una donna della ‘ndrangheta di Vibo Valentia che aveva deciso di collaborare come Tita Buccafusca.

L’acido invece è il protagonista di un’altra storia incredibile, la storia di Lea Garofalo che, secondo la sentenza di primo grado, è stata interrogata, uccisa e sciolta nell’acido in provincia di Milano dal suo ex compagno, e padre di sua figlia, per avere deciso di collaborare con la magistratura.

Ma commetteremmo un errore se pensassimo che è solo questo tipo di tradimento a non essere concepito dalla ‘ndrangheta.

È di qualche giorno fa anche la notizia dell’arresto di parte della famiglia Lo Giudice di Reggio Calabria: sono accusati di avere ucciso nel 1994 Angela Costantino. Angela – 25 anni e già 4 figli – ha sposato il boss Pietro Lo Giudice. Viene uccisa perché si è permessa di avere una relazione extraconiugale mentre suo marito era in carcere. E forse non è un caso se oggi si teme che abbia fatto la stessa sorte anche sua cognata, Barbara Corvi, sposata con un altro esponente della famiglia Lo Giudice, Roberto. Di lei non ci sono più notizie dal 2009.

E’ un elenco interminabile quello delle donne uccise dalle mafie. Noi dell’associazione daSud abbiamo provato a mettere tutte insieme le loro storie.

Abbiamo scoperto che sono più di 150 le donne assassinate, la prima – Emanuele Sansone – addirittura nel 1896.

Abbiamo fatto un dossier dal titolo “Sdisonorate – le mafie uccidono le donne”. cliccate qui entrare ne sito e  sfogliare le pagine del dossier

È la prima volta che accade, nel tentativo di non dimenticare queste vittime e di avviare una discussione pubblica sulla relazione donne-mafie. E’ però anche un modo per svelare la doppia ipocrisia – malavitosa e sociale – nei confronti delle donne che condanna la violenza ma che fa classifiche sulle ragioni che l’hanno determinata.

Sono molte le ragioni degli omicidi delle donne da parte delle mafie:sono morte per l’impegno politico, sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire.Spesso sono definitite “intoccabili” le donne, eppure proprio questa è la ragione per cui vengono prese di mira: come vendicarsi se non colpendo proprio loro, le donne degli “altri”: madri, mogli, fidanzate, sorelle. E poi c’è l’omicidio “passionale”: quello che socialmente tutto sommato ha un senso.

È più innocente la donna che passava per caso da una strada e si è beccata una pallottola vagante in testa di quella che ha tradito suo marito?

Per dare una risposta a questa concezione stanno tutte insieme queste storie: perché sono tutte morti riconducibili ad una causa originaria e cioè il sistema criminale e socio-culturale delle mafie. Che, in fondo, non fanno altro che riprodurre un modello patriarcale, sessista, machista che appartiene alla società e che non è arcaico ma ahimè ancora contemporaneo.

Purtroppo a confermare questa tesi ci vengono ancora una volta in aiuto i numeri sul femminicidio in Italia che – tra carnefici e vittime – non conosce età, o classe sociale, o provenienza geografica. Sono già 45 le donne uccise dai propri compagni ed ex compagni nel 2012. Con una media annuale che si attesta sul centinaio.

Numeri incredibili. Eppure lo capisci subito, parlando con la gente, cheancora certi processi sociali sono tollerati. Che ha anche un’altra faccia della medaglia: un altro disvelamento che abbiamo cercato di fare con questo lavoro è quello che vede protagonisti “giusti” gli uomini.

Quando in Calabria un uomo viene ucciso perché si è ribellato, ha denunciato, si è rifiutato al ricatto della ‘ndrangheta è doppiamente vittima: parte nei suoi confronti un’opera scientifica di discredito. Come? Si sparge in giro la voce che non è vero che è stato ucciso perché si era opposto alla criminalità organizzata ma che è stato ammazzato per “questioni di donne”. Un modo per depotenziare il suo operato, per infangare il suo nome, per

rendere più giustificabile l’assassinio. In fondo, se l’è meritato!