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Se il decreto contro il #femminicidio si rivela solo un pacchetto sicurezza

Chiamiamolo pure con il suo nome “pacchetto sicurezza” e non sicuramente come è stato esemplificato nella comunicazione “decreto contro il femminicidio”. Quello che è stato annunciato non è altro che l’ennesimo decreto omnibus. Perché dietro il paravento del femminicidio troviamo provvedimenti che con questo non hanno nulla a che fare, tipo: proroga del termine in materia di arresto in flagranza durante o in occasione di manifestazioni sportive; norme in materia di concorso delle Forze armate nel controllo del territorio e per la realizzazione del corridoio Torino-Lione; contrasto alle rapine ecc.

È un’operazione a cui questo Governo ci ha abituati, come dimostra il “decreto del fare” appena approvato dalle Camere: c’è un provvedimento condivisibile (?) e intorno ad esso si inserisce di tutto e di più.
In questo caso, questa pratica diventa più pesante perché – ancora una volta, come con lo “svuota carceri” – si utilizza il corpo delle donne per promuovere dibattiti e legittimare azioni politiche che con le donne nulla hanno a che vedere.
Abbiamo assistito durante l’esame dello “svuota carceri” a un dibattito in cui il M5S e la Lega ci accusavano di mandare per strada gli uomini violenti, gli stalker. Falso, non è mai stato così. Come avevamo sostenuto anche con il voto sulla Convenzione di Istanbul – e con noi l’intero Parlamento – il tema della violenza contro le donne si affronta non da un punto di vista securitario, ma attraverso la prevenzione e alla recidività degli uomini maltrattanti si risponde con un carcere riabilitativo. Soprattutto, abbiamo detto – l’accordo era trasversale – che è con il finanziamento e il sostegno ai centri antiviolenza che si aiutano le donne in un percorso di liberazione e, aggiungo io, di autodeterminazione. Questo avveniva appena qualche settimana fa. Oggi invece si sostiene altro e si decide di dare un colpo al cerchio e uno alla botte.
Così si rimette mano alla legislazione con l’inasprimento delle pene e inserendo la non revocabilità della querela – e su questo ci misureremo a partire dal confronto con le operatrici dei centri antiviolenza – ma di questi stessi centri, che con tanta retorica vengono evocati, in questo decreto non si fa alcun cenno. E da qui invece occorrerebbe partire.
Capisco che i familiari delle vittime guardino a questa iniziativa del Governo con interesse: sono persone private delle loro figlie, sorelle, madri, il loro dolore è troppo grande e la frustrazione è forte di fronte a una politica che è stata sorda davanti alle ingiustizie subite anche nelle aule dei tribunali dove la vittima spesso è stata trattata come carnefice.
Ma alle donne, tutte, sia a quelle che applaudono contente che a quelle che hanno solo parole di condanna, voglio rivolgere l’invito ad un tempo di riflessione: abbiamo un’estate per leggere accuratamente il testo e fare le dovute considerazioni nel confronto soprattutto con chi in questi anni, spesso in solitudine, ha lavorato per porre un argine alla violenza.
Una cosa è certa o per lo meno io ne sono convinta: bisogna fare un’opera di svelamento nei confronti di questo decreto rispetto a quello che c’è e a quello che non c’è. Come Sinistra ecologia e libertà abbiamo presentato una bozza di proposta di legge per l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, abbiamo chiesto che venga istituito un Osservatorio nazionale sulla violenza e sulla mercificazione del corpo femminile nei mezzi di comunicazione e abbiamo lanciato l’allarme sui centri antiviolenza. Io in prima persona ho intrapreso un viaggio nei centri, l’ho chiamato #RestiamoVive, per testimoniare le difficoltà in cui versano queste strutture preziose e capire come intervenire al meglio per poterle mettere nelle condizioni di operare. Solo così potremmo parlare davvero di legge contro la violenza maschile sulle donne e non di decreto sicurezza.

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Perché la Kyenge non deve mollare. E nemmeno noi, cara Igiaba

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In risposta alla lettera di Igiaba Scego indirizzata a Cecilè Kyenge

Cara Igiaba, A volte serve molto coraggio per dire un “no”, come ricordi nella tua lettera inviata alla ministra per l’integrazione Cecilè Kyenge. Talvolta, però, ne serve ancora di più per continuare, per ostinarsi e vincere una lotta giusta, per tentare di fare luce anche in mezzo ad una coltre di nebbia.

Nel tuo “invito” alle dimissioni della Kyenge sottolinei questioni importantissime, temi che riguardano il funzionamento di questo governo nato da un patto come dicono loro “necessario” ma già sfilacciato il giorno dopo. Un esecutivo che si rifiuta di fare una politica trasparente e che si allontana sempre di più dalle esigenze e le vite delle italiane e degli italiani. Tutto alla luce del sole, senza nascondersi. Fintamente “a loro insaputa”.

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Se adesso te ne vai

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La premessa è d’obbligo ma lo è sempre anche quando l’accusato non è un personaggio noto come Massimo Di Cataldo. Aspettiamo quindi gli accertamenti per conoscere le responsabilità effettive di questa vicenda, alla luce anche dell’apertura dell’indagine ai danni del cantante per procurato aborto. Per questo motivo (ma non solo) bisognerebbe avere molta cautela nell’esprimere dei giudizi avventati, sia da una parte che dall’altra. E invece dopo pochi minuti dalla “denuncia” di violenza domestica della sua compagna, Anna Laura Millacci, è partito il giudizio spietato non sulla presunta aggressione ma su come è stata segnalata.

È inutile sottolineare che ci sono le forze dell’ordine e i centri antiviolenza a cui potersi rivolgere, non credo che nella fattispecie Anna Laura non sapesse quali fossero i canali ufficiali per farlo. Ma mi domando: è possibile che in un momento di grande disperazione, di grande solitudine, facebook abbia rappresentato l’unico strumento a portata di mano, diretto, immediato con cui fare sapere al mondo quello che stava subendo? E per questo motivo Anna Laura va giudicata? Va bacchettata?

Solo chi non conosce la violenza può avere questo atteggiamento da “moralizzatore”; chi conosce invece questo dramma dovrebbe tirare un sospiro di sollievo ed apprezzare che sia riuscita a parlare, in qualsiasi forma. Vuol dire prendere a modello questa modalità o imitarla in futuro? No, dobbiamo continuare a dire alle donne vittime di violenza di rivolgersi a chi è nelle condizioni di sostenerle sul serio, prime fra tutte le operatrici dei centri antiviolenza. Ma non dobbiamo aggiungere violenza ad altra violenza. Prendiamoci cura delle donne.