19598_10200640652087458_1238266774_n
Articolo

Una legge nazionale seria sui rifugiati, sull’accoglienza

Dal momento in cui si riconosce l’asilo politico ai rifugiati, in Italia, viene meno la possibilità per loro di vivere nei Centri di accoglienza. Come dire, puoi stare qui da noi, ma arrangiati da solo. Serve una legge nazionale seria sui rifugiati, sull’accoglienza. Un paese civile non solo deve riconoscere ma deve garantire una vita dignitosa. A Corso Chieri, a Torino, più di 80 rifugiati vivono in una casa priva di ogni servizio e sono aiutati da pochi volontari. Questi sono i temi di una agenda governativa che si rispetti.

64547_10200640658127609_1641527390_n

Articolo

Femminicidio, violenza sulle donne. Priorità prossimo Governo

VIOLENZA SULLE DONNE: FLASH MOB A ROMABasta con le lacrime di coccodrillo, basta con gli appelli retorici: il femminicidio altro non è che l’atto conclusivo di una spirale di violenza che si consuma quotidianamente sotto i nostri occhi e di cui colpevolmente la politica continua a non volersi fare carico. Perché davanti all’uccisione di una giovane donna per mano del proprio ex fidanzatino sono tutti pronti a fare comunicati di indignazione e denuncia salvo poi voltarsi dall’altra parte quando si tratta di intervenire realmente nei confronti di questo problema, cercando le soluzioni più efficaci anche sul piano della legge?

Le prossime elezioni rappresentano l’ennesimo test per un Paese che, di fronte al bollettino di guerra che tiene dentro donne di tutte le età, nazionalità e ceti sociali, alterna l’ indifferenza o la commozione occasionale per questa o quella vittima, senza mai interrogarsi davvero sulle radici del problema.

Alle Politiche i leader e i candidati premier sono tutti uomini. Monti e Ingroia (di Berlusconi è meglio non parlare) non si sono neppure posti il tema della parità di genere e, anzi, in linea con la tradizione politica maschilista di questo Paese, motivano l’assenza con la solita e strumentale balla sulle “quote”: meglio poche ma buone, oppure “abbiamo messo le più rappresentative” o, ancora, “abbiamo troppo stima nei confronti delle donne per utilizzarle come delle razze protette e, infine, “le avremmo volute mettere ma purtroppo non ce ne sono abbastanza”. Sono espressioni che la dicono lunga sul loro modo di stare al mondo e di essere – come si autodefiniscono – “società civile”.
Se la crisi della politica allontana le donne, com’è possibile che nella società civile non ci siano, seguendo il ragionamento dei leader in questione, donne meritevoli, rappresentative e capaci? Forse allora sarebbe più onesto spiegare che semplicemente non si ritiene l’impegno delle donne in politica un punto di “civiltà” e ammettere che è stato più facile, come sempre, fare prevalere la dimensione di potere da ritrovare in altri uomini piuttosto che scegliere di aprire “opportunità” nuove.

Bersani e Vendola invece, dall’altra parte, si vantano con l’opinione pubblica di aver inserito nelle liste, chi più chi meno, il 40% di donne in quota eleggibile. Non mi piace, per ragioni di fondo, l’espressione utilizzata nel descrivere questa scelta perché allude ad un potere discrezionale che resta in mani maschili. Per questo penso che si debba lavorare ancora molto sul linguaggio della politica e sulle pratiche. E sarà possibile compiere questo passo soltanto se noi donne saremo presenti, protagoniste nella politica. Perché è anche a partire da una presenza forte nelle istituzioni che può vivere e acquistare visibilità il lavoro straordinario svolto in questi anni dai movimenti, dalle associazioni, dalle strutture delle donne.
Naturalmente nessuno vuole e può sostituirsi a questi mondi, ma credo che possa essere fondamentale il ruolo delle donne in Parlamento per offrire un riferimento importante a questi percorsi, aprire un dibattito pubblico nel Paese, legiferare per intervenire realmente nei guasti della società che anche la politica ha determinato.

Dentro questo meccanismo – lo voglio precisare – non esiste una politica delle donne: non c’è un tessuto neutrale che tiene insieme le donne in quanto tali, non c’è una trasversalità politica su “certi” temi. C’è una lettura profonda invece del sistema economico, un’analisi del mercato del lavoro, una concezione del diritto che si colloca da una parte ben precisa. Avere chiaro questo significa oggi occuparsi di noi. La violenza non è staccata da tutto questo. Per questo non m’interessa la proposta di legge Bongiorno che punta banalmente all’inasprimento delle pene per coloro che fanno violenza. Perché per me, per noi, questa non è una questione da inserire sotto il cappello “sicurezza” neppure quando si vuole affrontare il tema della violenza, del femminicidio estrapolandolo dal contesto sociale e culturale. L’inasprimento delle pene sarebbe semplicemente un provvedimento inefficace. La soluzione, semmai, va ricercata nella firma da parte delle istituzioni italiane della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 e nella strada scelta dalla Spagna con la “legge integrale contro la violenza di genere” che assieme, alle pene per gli uomini violenti o all’istituzione di una sezione del tribunale ad hoc, prevede per esempio una maggiore protezione e aiuti per le donne vittime di maltrattamenti.

Alla luce di tutto questo, oggi sono tre le direttrici su cui intervenire: prima di tutto “salvare” e potenziare i centri antiviolenza. La rete Dire, che ha una copertura nazionale, ci segnala che molte strutture non riescono ad andare avanti per i continui tagli, per le difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, per la necessità di costruire sempre nuovi progetti da fare finanziare visto che i centri antiviolenza – che in Italia mancano persino di una definizione precisa – non godono mai di finanziamenti stabili. Sostenere la prevenzione e l’aiuto che arriva da queste strutture è il primo e irrinunciabile passo per non farci complici del terrificante bollettino di guerra contro le donne. Vorrei aggiungere che vanno seguiti con attenzione gli esperimenti importanti che si stanno facendo nei confronti degli uomini che hanno fatto violenza.

La seconda direttrice riguarda invece l’introduzione nelle scuole di una “educazione sentimentale”. L’Italia deve ripensare la sua “cittadinanza”, deve riuscire a dare vita a un nuovo popolo fatto di uomini e donne che insieme scoprono e costruiscono in itinere il senso del piacere, della reciprocità, della dignità dello stare insieme.
C’è poi il grande tema della comunicazione dove pure è necessario lavorare per modificare l’idea e l’immagine delle donne. Non si tratta di moralismo o critica per l’esaltazione della bellezza e del corpo femminile che trasuda da ogni parte. Ma occorre su questo introdurre problemi e questioni, nel dibattito pubblico, chiedersi perché questi elementi debbano essere associati a tutto. Dai prodotti di consumo a ogni aspetto che riguarda la vita delle persone.

Rimane, non certo per importanza, il tema del lavoro che merita un intervento ad hoc, ma che è strettamente connesso alla questione più generale dei rapporti tra i sessi. La possibilità dell’accesso al lavoro, a un reddito minimo garantito, a una parità salariale, alla possibilità di rivestire ruoli apicali, a una indipendenza economica e a una realizzazione professionale: sono tutti aspetti di quella condizione più generale di sicurezza, autostima,dignità, di immagine sociale e simbolica delle donne che può rappresentare un formidabile elemento di tutela per tutte .

L’eredità che ci ha lasciato la ministra Fornero con la sua “riforma” del lavoro è pesantemente negativa: non ha migliorato le condizioni delle donne, benché Fornero avesse anche la delega per le pari opportunità, e le ha peggiorate per tutti, “femminilizzando” il mercato del lavoro nel senso di indebolire diritti e tutele dei lavoratori nel loro complesso.
Una situazione disastrosa su cui è urgente intervenire e che sarà un importante banco di prova del nuovo governo di centrosinistra.

Articolo

L’ineluttabilità della crisi

GIOVANI-SPAGNOLI
In tempi di crisi, in questa nostra crisi, non è difficile capovolgere l’ordine delle cose. Per rendere possibile ogni provvedimento di questo Governo, ogni posizione politica, ogni scelta sindacale “ineluttabile” basta utilizzare due semplici coordinate: l’Europa e il rischio recessione. L’ineluttabilità può determinare tutto il contrario di tutto. È quello che è avvenuto e sta avvenendo in tema di lavoro: la riforma delle pensioni (è l’Europa a chiedercela) la discussione sull’art. 18 (il rischio è che nessuno voglia più investire in Italia).
Davanti a tutto questo purtroppo l’Italia si riconferma un Paese narcotizzato, anni di Berlusconi non hanno determinato degli anticorpi ma hanno confermato una prassi. Al peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, e all’esasperazione dei ceti poveri, corrisponde un sentimento di ineluttabile rassegnazione resa lieve dalla speranza che questo sacrificio immenso prima poi verrà ripagato. Quello che stupisce non è la fiducia che gli italiani hanno riposto in questo Governo, no quello che stupisce, prima con Berlusconi adesso con Monti, è come gli italiani subiscano in maniera assolutamente passiva la ridefinizione di loro stessi. La politica e l’informazione ad essa legata, segna di volta in volta i desideri, le abitudini, i sentimenti, le aspirazioni di un’intera società. Tutti nessuno escluso, anche chi reagisce negativamente e polemizza con la descrizione che gli viene affibbiata nella funzionalità del provvedimento politico, lo fa rimanendo all’interno del loro stesso schema, attuando di fatto sempre una protesta resistenziale e mai di nuovo immaginario.
Sul lavoro sta avvenendo esattamente questo. Ed è straordinario come i “giovani” riescano sempre a farsi incastrare in un modello o in un anti modello stabilito da altri. Brunetta ci chiamava “bamboccioni” e da quel momento in maniera più pressante che mai è partita la narrazione precaria. In ogni piazza e in ogni racconto strappato da una televisione, partiva la sofferenza di chi non riusciva a progettare un futuro, a costruirsi (?) una famiglia, ad avere una pensione. Tutto molto orientato al domani, poco racconto del presente. Perché la discussione non è su quello che sei e su quello che hai, è su quello che avresti dovuto essere e non avrai mai. Cioè il modello con cui si continua a fare i conti è quello dei propri genitori, il racconto sofferto di almeno due generazioni parte da questa mancanza di opportunità. L’inseguimento di questa chimera ha prodotto l’alibi perfetto alla politica per l’immobilismo e per portare avanti un finto dibattito di riposizionamento degli schieramenti. Da una parte il continuo richiamo alla flessibilità come unico strumento per inserire i giovani nel mercato del lavoro, dall’altro il ritardato tentativo di cambiare tutto per non cambiare niente. Risultato: la flessibilità è diventata solo precarietà senza alcuna garanzia e tutela.
In questo quadro Monti arriva e ci spiega l’ineluttabile. C’è un Paese che ha vissuto nella menzogna, che ha allevato i propri figli in maniera sbagliata, che ha progettato per alcuni di loro un’esistenza che non gli era permesso avere. Quindi oggi per sopperire a questo gap l’unica cosa da fare per venire incontro ai giovani è eliminare i privilegi/diritti dei vecchi per fare più spazio a loro. Ma non finisce qui perché al tecnicismo con cui la ministra Fornero ci propone la riforma del lavoro, dobbiamo aggiungere dei segnali inequivocabili di quella “ridefinizione” di noi stessi a cui facevo cenno prima: lo “sfigato” che ancora a 28 anni non è laureato. Bisogna capire che questa affermazione poi rettificata e per la quale soprattutto la sinistra ha mostrato indignazione, in realtà è già passata, è già patrimonio comune. È come l’operazione razzista della Lega con i migranti. Già vive  l’idea del ragazzo parassita dentro le università che invece di trovarsi un lavoro perde tempo nel conseguire un titolo di studio di cui l’Italia non ha neanche bisogno come una laurea in storia, in lettere… E allora ecco che si mette in atto la macchina difensiva. Una motivazione propagandata dalla sinistra è quella sul diritto allo studio, di quanti giovani per studiare debbano anche lavorare rallentando così inevitabilmente il traguardo. I “giovani” che si sentono toccati dall’esser stati definiti “sfigati” rispondono o con la stessa debole spiegazione o con un’ammissione di colpa a cui però fa sempre capolino una mancanza di redenzione successiva da parte del mercato del lavoro. 1 a 0 per Martone.
Apparentemente autogol per il sobrio Monti: “la monotonia del posto fisso”, perché a differenza del parassita universitario per l’opinione pubblica e per la cosiddetta società civile qualsiasi ragazzo volenteroso in Italia merita di avere un contratto a tempo indeterminato. E allora come tante immaginette arrivano i giovani che potremmo definire: i laureati disposti a tutto. Quelli che dimostrano che non è vero che questa generazione non intende lavorare se non con il proprio titolo di studio, quelli che orgogliosamente raccontano della laurea in scienze politiche trasformata in contratto da banconista al supermercato. Questo racconto serve per dire: “avete visto come sono bravi i giovani in Italia? Non è vero che sono tutti degli sfigati che vogliono stare accanto a mamma e papà!”.
Non voglio essere fraintesa, è chiaro che per campare si fa quel che si può ma quello che mi sento di contestare aspramente è l’idea che un provvedimento politico sistematizzi uno stato di necessità e lo spacci pure come l’unica cosa possibile da fare.
Infine concludiamo questa carrellata giovanilistica con i laureati da mea culpa televisivo: “non avrei mai studiato filosofia se avessi saputo…” per questi manca solo di chiedere perdono in diretta a tutti gli italiani che stanno in ascolto. Cioè siamo di fronte al paradosso per cui il punto non è un Italia ferma da cinquant’anni che non ha fatto investimenti, che non ha prodotto crescita, che non sa cosa sia la riconversione industriale, l’alta tecnologia e la green economy ma il problema è che c’è troppa gente che studia e che studia anche cose inutili.
Questo capovolgimento dello sguardo, del punto di vista, non solo peggiora le nostre condizioni di vita ma distorce anche l’elemento rivendicativo. Noi oggi possiamo decidere di difendere l’art.18, e secondo me è bene farlo, per non permettere che vengano messi a rischio i diritti dei lavoratori ma la verità è che la nostra storia ci parla di altro. Ci hanno spacciato per anni una radicalizzazione del conflitto attraverso l’abrogazione della legge 40 che si è sempre tramutata in un nulla di fatto e mentre si ripeteva ciclicamente questo gioco a perdere la precarietà non è stata più solo contrattuale ma si è trasformata in esistenziale. Non si è tradotta solo in comprensibile vittimismo ma anche in nuova consapevolezza del sé, in un nuovo modo di autodeterminarsi e di concepire i processi sociali. Invece di viverli con senso di colpa alcuni diritti che abbiamo acquisito nello stato di precarietà, dovremmo rivendicarceli non fare finta che non ci siano perché non sono gli stessi che la storia di questo Paese ha conosciuto. Il diritto alla cittadinanza per esempio va oltre il lavoro e noi ne siamo la rappresentazione. Per poterne usufruire fino in fondo la rivendicazione è la richiesta di una continuità di reddito. Questo oggi devono essere capaci di urlare per sé le generazioni che vanno dai 20 anni ai 40. È ingeneroso nei confronti di tutti quei giovani che in questi anni hanno manifestato nelle piazze? Non credo, non lo penso ed io ero lì con loro. I movimenti hanno bisogno di rinnovarsi e di trasformarsi, l’importante è essere entusiasti e non rassegnati al cambiamento, per riuscire a governarlo e non subirlo.