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PROPOSTA DI LEGGE
di iniziativa delle deputate CostantinoDi Salvo, Nicchi, Pellegrino, Melilla, Pannarale, Piazzoni, Duranti, Ricciatti

La Ratifica della Convenzione di Istanbul da parte dell’Italia ha riaperto nelle sedi istituzionali il dibattito sul fenomeno della violenza sulle donne. È sicuramente un grande passo in avanti sia sul piano simbolico che materiale ma per darle piena attuazione ha bisogno di conseguenti interventi di integrazione e modificazione della legislazione e della regolamentazione nazionali che consentano la realizzazione degli obiettivi e delle misure da essa recati. Tra questi un ruolo fondamentale potranno svolgerlo progetti di formazione culturale che accompagnino i percorsi scolastici delle ragazze e dei ragazzi, a partire dal ciclo della scuola media inferiore, fornendo adeguati strumenti di comprensione e di decostruzione critica dei modelli dominanti tuttora alla base delle relazioni tra i sessi.

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Centri anti violenza, rischio chiusura

di Giacomo Russo Spena
(22 settembre 2013 – L’Espresso)

Finanziamenti a singhiozzo. Affitti salati da pagare. Rischio di sfratti. Pochissime risorse da investire. Il lavoro che si trasforma automaticamente in volontariato. Fino, in alcuni casi, alla chiusura di centri e case rifugio per donne maltrattate che dovrebbero svolgere un ruolo centrale e determinante nel contrasto alla “guerra silenziosa” che ogni anno fa in Italia centinaia di vittime.

La situazione dei centri anti violenza (CAV) in Italia peggiora di giorno in giorno, nell’indifferenza del Palazzo. Tagli e difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, una mannaia. Il decreto sul femminicidio, varato durante l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, non menziona nemmeno i CAV. Per Titti Carrano, presidente della D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), nel dl manca “qualunque riferimento al riconoscimento del ruolo che i centri svolgono da anni in Italia: chiediamo il loro coinvolgimento nei tavoli tecnici che si occupano di violenza e lo stanziamento di specifici e adeguati fondi definiti nella legge di stabilità”.

Un provvedimento (andrà in aula il 23 settembre) che esclude – come previsto dalla Convenzione di Istanbul – gli interventi di prevenzione. Come quelli svolti dai CAV: supporto legale e psicologico alla donna maltrattata, collaborazione con forze dell’ordine e servizi sociali, Telefono Rosa h24 per le emergenze, attività di promozione culturale con corsi nelle scuole, convegni, seminari e iniziative di vario genere. Poi le case rifugio per ospitare le donne in pericolo e impossibilitate a tornare a casa per paura del compagno aguzzino.

Sono 124 le donne uccise nel 2012 e 14mila quelle che si rivolgono, ogni anno, ai 63 centri anti violenza aderenti a D.i.Re. A questi vanno aggiunti un’altra quarantina autocensiti per un totale di 100 centri presenti sul territorio nazionale. E nel 2013 sono in aumento le donne che si rivolgono ai CAV, sintomo di una maggiore consapevolezza.

“E’ arrivata un’ingiunzione di pagamento, siamo a rischio sfratto” denuncia Cinzia Maroccoli, presidente del CAV di Potenza, l’unico dell’intera Basilicata. Si caratterizza per costituirsi parte civile ai processi contro gli uomini maltrattanti. Aperto dal 1989, fino al 2001 è andato avanti con autofinanziamenti. “I soldi arrivano a singhiozzo – spiega – Siamo ancora in avanzo della cifra del 2011 mentre non conosciamo ancora l’importo per il 2013”. In mancanza di risorse, ecco la riduzione dei servizi, il lavoro delle operatrici che diventa volontariato e la morosità nella locazione di 1200 euro al mese. Il CAV ha anticipato soldi e si è indebitato con la banca, con la speranza che arrivino i finanziamenti regionali. Prima o poi. Assenti le risorse per ampliare la casa rifugio al momento capace di ospitare 5 donne. “A volte dobbiamo rifiutare le richieste per mancanza di posti e indirizzare le donne maltrattate verso altre strutture di accoglienza” spiega la presidente “La nostra è precarietà esistenziale, non riusciamo a prospettare un intervento di lungo periodo. Ci negano un futuro”. E due signore ospitate sono all’ottavo mese e sul punto di partorire.

Altri centri rifugio sono stati costretti direttamente a chiudere. Come il caso a Cosenza del “Roberta Lanzino”. Parliamo con la responsabile, Antonella Veltri, che racconta come nel 2010 abbiano preso la sofferta decisione per la mancanza di fondi. Ad oggi sono morosi con il proprietario dello stabile. Rischiavano di chiudere anche il centro di supporto legale e psicologico, per fortuna è arrivata una boccata d’ossigeno: “La Provincia ci ha assegnato un posto”. Un passo importante.
“Ovviamente il lavoro” afferma Veltri “resterà volontario e una qualsiasi spesa sarà coperta da autofinanziamenti o iniziative autorganizzate (riffe o vendita di candele per strada)”. I pochi spiccioli in arrivo dalla Regione non sono sufficienti.

Se al Sud si evidenziano situazioni limite, al Nord i CAV versano in condizioni poco migliori. A parte il Trentino che è la regione più virtuosa e più attenta al finanziamento dei centri. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto sicuro per vittime di violenza di genere ogni 10mila abitanti. In Italia ne servirebbero circa 6mila. Nella realtà sono soltanto 500. A fine anno potrebbero essere ancora meno le case rifugio. Così come le operatrici spesso disincentivate da tale corsa ad ostacoli.

In Emilia Romagna il CAV di Lugo adesso è riuscito ad accedere a finanziamenti comunali ma ha rischiato la chiusura. “Il nostro è volontariato puro” racconta Nadia Somma, presidente dell’associazione Demetra donne in aiuto “Abbiamo ridotto a 6 ore alla settimana il nostro intervento: tra affitto, rimborso benzina, elaborazione progetti, spese varie non avevamo più soldi”. E invece servirebbero risorse anche per corsi di formazione a procure e forze dell’ordine: “Spesso” continua Somma “un agente confonde le violenze domestiche per conflitti familiari non intervenendo a dovere sul compagno maltrattante”. Mentre nel caso di affidi in comune, si costringe la donna a continuare ad incontrare l’uomo che dopo il distacco diviene maggiormente violento.

La rete D.i.Re promette battaglia per modificare il decreto in Parlamento. Così come alcuni parlamentari sensibili al tema. Celeste Costantino, deputata di Sel, ha intrapreso un viaggio nazionale nei centri, chiamato #RestiamoVive, per testimoniare le difficoltà in cui versano queste strutture, raccogliere dati e numeri, ascoltare dalla viva voce delle operatrici le difficoltà del lavoro quotidiano: “Dal Nord al Sud del Paese i CAV si ritrovano a lavorare in una situazione davvero insostenibile. Al più presto serve un piano di finanziamento nazionale per la prevenzione, percorsi di aiuto per gli uomini maltrattanti, un Osservatorio nazionale, l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, proposta di legge, quest’ultima, che ho già depositato. Il dl femminicidio è stato scritto senza tenere conto della complessità del tema e con un’ottica da ‘pacchetto sicurezza’. Un’occasione persa dopo aver votato all’unanimità la Convenzione di Istanbul”.

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È passato emendamento vergognoso voluto da Pd e Scelta civica che sospende discriminazione aggravata per e organizzazioni (politiche, culturali, ecc). Noi volevamo piena estensione Legge Mancino. Ma alla Camera oggi spacciano per libertà di espressione il poter insultare e umiliare. Le larghe intese stanno distruggendo norme e calpestando diritti. Al Senato l’emendamento Gitti dovrà essere cancellato. #omofobia

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#Femminicidio, il decreto va cambiato

Il Governo delle larghe intese ci ha abituato ai decreti omnibus, veri e propri zibaldoni dai contenuti più diversi. Lo ha fatto anche con il femminicidio che sta dentro un decreto “sicurezza” che contiene incomprensibilmente anche norme sulle proteste contro la Tav, sugli stadi, l’organizzazione delle Province, l’inasprimento delle pene per furti di rame. Un quadro ancora più indigeribile del solito. E questo perché quando si vuole legiferare sul corpo delle donne il simbolico gioca un ruolo primario: pensare di utilizzarlo, come si fa in questo decreto “sicurezza”, come specchietto per le allodole per far passare tutto il resto è molto grave. Per una ragione di forma e di sostanza: perché ci restituisce in maniera plastica l’idea di come la politica istituzionale in questi anni sia rimasta cieca e sorda davanti alla denuncia pubblica delle donne.

Colpevolmente. Perché, come hanno giustamente ribadito tutti i soggetti ascoltati nelle audizioni delle commissioni parlamentari, «nessuno poteva non sapere»: i fatti di questi anni dimostrano in maniera inequivocabile che la violenza contro le donne non si contrasta con un approccio securitario, ma attraverso la prevenzione, la formazione e il rafforzamento delle strutture già esistenti. E invece in questo decreto non c’è la scuola, non ci sono i servizi sociali, non c’è la rete dei centri antiviolenza (che è in grave difficoltà, come sto verificando nel tour #restiamovive) e e dei centri per gli uomini maltrattanti (com’è stato sperimentato a Torino e in altre città italiane). Piuttosto è un insieme di maggiori poteri alla polizia giudiziaria e di aggravanti processuali.

Su un punto in particolare, e mi riferisco alla “irrevocabilità della querela” spacciata per una rivoluzione positiva, non si tiene in nessun conto della volontà della donna che, invece, viene lasciata sola ad affrontare quello che è molto simile a un “inferno”. Perché gli uomini denunciati dalle donne sono compagni, mariti, padri. E quindi, se non si interviene sul sostegno economico, sull’assistenza e le si vincola, si crea un effetto contrario: farle decidere di non denunciare per la paura della finitezza di questo gesto. L’impossibilità di poter cambiare idea mette ancora più angoscia: la paura di “rovinare” le vite dei loro uomini.
Tutto ciò alla luce ha ancora più valore se si pensa che il 75% dei casi di femminicidio era stato preceduto da segnalazioni alle istituzioni. Cosa ha fatto lo Stato per queste donne? E come sarà accanto a loro se dovesse passare questo decreto “sicurezza”?

Bisogna allora intervenire a sostegno di chi deve operare ed opera insieme alle donne vittime di violenza per capovolgere questo sguardo. Sapendo che non è facile perché interviene dentro una relazione sentimentale. Anche per questo motivo sarebbe stato importante introdurre, già in questo decreto, l’educazione sentimentale nelle scuole (proposta di legge che ho già depositato), il potenziamento dei centri antiviolenza, l’istituzione dei centri per uomini maltrattanti, il rafforzamento delle politiche sociali territoriali e la formazione continua per magistrati e forze dell’ordine. Tutti strumenti che intervengono da una parte sulla prevenzione del fenomeno e dall’altra sulla protezione della vittima nel suo percorso di liberazione dalla violenza.

È necessario allora – come chiedono anche tutte le donne impegnate contro la violenza – cambiare radicalmente questo decreto. Non potremo votare un provvedimento in cui violenza sessuale, stalking, violenza di genere sono usati come se fossero sinonimi. Senza neppure distinguere livelli e i piani del linguaggio. Oppure continueremo, come sempre, a non ascoltarci e a parlare con lingue incomprensibili e avremo soltanto l’ennesima – e inutile per le donne – legge spot per questo Governo.

– da l’Unità –

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