Il “sobrio” Monti, insieme ad altri esponenti del suo Governo, comincia a registrare pesanti cadute di stile. Stranamente, direi. Perché non bisogna essere docente della Bocconi per capire che davanti a un Paese in enorme sofferenza determinati toni e l’uso di alcune parole devono essere totalmente bandite. E invece il professor Mario Monti, probabilmente preso dall’insofferenza verso i sindacati o qualche esponente politico che continua a mettere i bastoni tra le ruote nel suo tentativo di salvare l’Italia, ha sbottato. E lo ha fatto su uno dei temi più delicati in questo momento: il lavoro e diritti delle nuove (?) generazioni. Siamo passati dallo “sfigato” di Martone alla “monotonia” di Monti con in sottofondo un leitmotiv comune a tutti i rappresentanti di questo Governo, di Confindustria e di parecchi esponenti del centrodestra che dice: “L’art. 18 non può essere un tabù”.
Fa un po’ ridere sentire questa espressione dopo 16 anni di berlusconismo in cui sono stati abbattuti tutti i tabù possibili, anche quelli del comune senso del pudore. Capisco però che fa comodo fingere che tutto si riduca a una questione ideologica. Il mantra sull’articolo 18 potrebbe essere tranquillamente associato alla “colpa dei comunisti” di belusconiana memoria. Stili diversi, ma la sostanza non cambia. Per far passare la riforma del lavoro si ricorre al fantasma ideologico: quello che frena, blocca la crescita e distrugge quel poco di economia rimasta. Loro sono quelli consapevoli, responsabili, con una mission impossible da portare avanti, noi siamo esattamente il loro contrario, con in più un aggravante: siamo “politici”, cioè quelli che non si possono permettere di parlare. E poco importa se abbiamo governato o eravamo all’opposizione, se siamo dentro o fuori il parlamento, il punto è: siamo tutti uguali, siamo tutti Luigi Lusi.
Purtroppo tuttavia, bisogna ammetterlo, non hanno tutti i torti a essere nauseati da questa classe dirigente che, anche quando non è ladra, non sembra rendersi conto di quanto sia comunque privilegiata. Bene ha fatto Maurizio Crozza nel rivolgersi a Giovanna Melandri che non voleva tagliarsi lo stipendio da parlamentare perché considera questa misura “populista” che sostenere una cosa del genere è una “stronzata”. Il populismo c’è eccome, ma non può essere il parafulmine a una situazione oggettiva di benessere economico rispetto a un Paese che sta sprofondando. Allarghiamo i tagli anche ad altre categorie, e non solo alla politica. Ma che ognuno faccia la propria parte.
Compresi i giovani che non sono spettatori inermi in questa discussione, ma che hanno la possibilità di intervenire e agire conflitto dinanzi a una prospettiva che non migliora le proprie condizioni di vita. L’abbiamo fatto in passato, lo dobbiamo fare a maggior ragione adesso davanti a un governo che per la natura con cui è stato nominato trova un consenso trasversale in parlamento, compiacimento nei poteri forti e speranzosa attesa in buonafede tra la gente che fa sacrifici a causa dell’incubo recessione. Gli unici che possono determinare uno svelamento siamo noi giovani, veri e presunti. Ventenni, trentenni e quarantenni, che un lavoro non ce l’abbiamo e se ce l’abbiamo è precario insieme alle lavoratrici e ai lavoratori che rischiano di non averlo più. In questo senso l’11 febbraio, la manifestazione della Fiom, diventa una tappa fondamentale della messa in discussione di un modello che non risolve i problemi e annulla i diritti.
Detto questo, le responsabilità non stanno sempre altrove. L’attacco in questi anni ai cosiddetti giovani è stato talmente pesante che l’atteggiamento che abbiamo assunto è stato di totale difesa di un mondo che forse davvero non ci appartiene più, se mai ci è appartenuto. La legge Treu è del 1995 e in questi anni la precarietà ci ha cambiati. Lo abbiamo detto fino allo svilimento: ci ha cambiati anche dal punto esistenziale, non è solo materialità della vita, è pensiero, è comportamento. Questo non può essere vissuto come senso di colpa. È stata conseguenza non voluta, certo. Tuttavia dentro questa dimensione, la precarietà non va solo subita ma agita. Nella crisi crolla il modello che abbiamo conosciuto attraverso i nostri genitori. Bene (?). Vorrà dire che ci dovremo attrezzare per costruirne uno nuovo, che non insegua più quello ma che nasca da ciò che siamo adesso e non dalla proiezione di quello che saremmo dovuti essere.
Se ci raccontiamo da sfigati è difficile che poi qualcuno non si senta autorizzato a definirci così. Bisogna battersi per una società che sia messa nelle condizioni di poter decidere, decidere di firmare un contratto a tempo indeterminato con le garanzie e le tutele che questo comporta e decidere di firmare un contratto a tempo determinato avendo salvaguardati gli stessi diritti. Fermarsi e sapere che comunque c’è un reddito che in attesa di occupazione ti permetterà di non fare la fame. Bisogna difendere il posto fisso, ma ammettere senza vergogna che molti di noi quel posto fisso non lo vogliono più.
Dalla precarietà nasce un nuovo diritto di cittadinanza che dobbiamo rivendicare come nostro fino in fondo perché basato su un’idea di giustizia sociale. La politica e i sindacati ragionano ancora per compartimenti stagni: modalità comprensibile quando si tratta di difendere il lavoro esistente, fuori dal tempo se si deve ragionare di crescita e di nuova occupazione. Bisogna fare i conti con questa trasformazione sociale, non nasconderla e adattarla. Denunciamo le storture di questo sistema, ma non per fare spazio a noi stessi. Piuttosto per decostruirlo totalmente, e ricostruirlo rispetto alle nostre esigenze. Non voglio prendere il loro posto, voglio un posto nuovo. Che sia dentro la politica, la scuola, l’università, la fabbrica anche fin dentro le mura domestiche. Ieri un’amica ricercatrice universitaria mi raccontava di non avere un posto, una scrivania dove poter scrivere e lavorare perché gli uffici sono ancora occupati dagli ordinari in pensione che, alla tenera età di 75 o 80 anni, hanno piacere la mattina di farsi un giro in ateneo e continuare a esercitare il loro potere di baroni. Io spero tanto che la mia amica possa prima o poi entrare in quell’ufficio, ma mi auguro pure che finita la sua esperienza vada via e non faccia parte di quel sistema perché insieme a me lo vuole cambiare.
Oggi noi non dobbiamo rivendicare solo l’accesso, ma la costruzione. Qualità del lavoro e continuità di reddito. Quanto pesa oggi licenziarsi da un contratto a tempo indeterminato di un call center? Tantissimo, e infatti il più delle volte non lo fai. Sei lì a doverti considerare un privilegiato quando invece vorresti urlare che non lo sei. “Io non ci sto”, ci ha ricordato un difensore della Costituzione attraverso la sua morte. Basta essere depressi, ora è tempo di essere rivoluzionari.