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La fortuna di non essere uccise

interrotte

Ci sono dei numeri che non fanno notizia. Sono tanti in Italia. Sono quelli dei morti sul lavoro, quelli delle vittime delle mafie, quelli indefiniti dei migranti annegati in mare. E poi ci sono quelli delle donne ammazzate: solo nel 2012 sono già arrivate 45. Di queste donne non si sa praticamente nulla: se ne parla poco e male. Ancora adesso autorevoli giornali, quando devono dare per esempio la notizia dell’ennesima ragazza uccisa dall’ex fidanzato, titolano “per motivi passionali” o “per gelosia”.

Se poi ci spostiamo in televisione la situazione peggiora notevolmente. Le trasmissioni di approfondimento politico non affrontano mai il problema come questione strutturale, ma mettono intorno a un tavolo le forze politiche soltanto davanti a una violenza “straordinaria” (caso Reggiani) determinando così un’attenzione esclusiva e mai di sistema. Il più delle volte vengono chiamate a discuterne solo le donne (meglio ancora se in occasione dell’8 marzo) come se fosse un problema che investe solo loro. Si mettono insieme donne di aree politico-culturali diverse: uno schema che serve a sostenere che, davanti alla violenza sulle donne, la battaglia è comune e non si fanno differenze fra destra e sinistra.

Come se affermare che la famiglia è il luogo in cui avvengono maggiormente le violenze o invece che la violenza si consuma per strada e per mano migrante sia la stessa cosa. Come se questo punto di partenza sia irrilevante nella costruzione di un’azione politica. Come se per sconfiggere la violenza non sia importante fare un’analisi corretta. Un’ipocrisia politica al femminile che in questi anni ci ha fatto fare passi indietro e non in avanti.

Peggio dell’approfondimento politico, ci sono i programmi di attualità caratterizzati dalla presenza di “opinionisti”. È lì che si consuma il male assoluto: la violenza diventa una soap opera durante la quale è possibile tirare fuori tutta l’ignoranza e la barbarie insita nella pancia del Paese. “Nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un essere umano”, e fin qui ci siamo. Poi però si va a scavare nell’esistenza di lei, si definisce lui “un ragazzo che l’amava troppo”. E si va avanti rivolgendo al pubblico da casa domande del tipo: “Uccidereste per gelosia?”. Tutto affrontato con una leggerezza sconcertante come se non fossimo davanti a una morte reale, ma sempre dentro una fiction.

Anzi, in questo caso, la fiction andrebbe salvaguardata. È il caso, per esempio, della nuova miniserie tv “Mai per amore”, prodotta per la Rai dalla società di Claudia Mori, rinviata per mesi senza un perché nonostante sia un tentativo utile di far capire come la violenza non è una questione “romantica” o di “sicurezza”. La violenza è una questione politica e di sicurezza culturale.

E non essere ammazzate è una questione di forza o di fortuna. La forza è rappresentata dalle donne che denunciano i propri aguzzini prima che si arrivi all’atto definitivo, che è la morte fisica e psicologica. Ed è una forza vera: non è facile capire quello che ti sta succedendo e poi affrontare il contesto in cui portare avanti il tuo processo di liberazione sia dal punto di vista legale che sociale.

Proprio per questa ragione la politica dovrebbe vergognarsi dell’abbandono in cui lascia tante donne che decidono di fare questo percorso. Lasciare che chiudano i centri antiviolenza è essere complici di questo sistema. Non dare rappresentanza alle donne è essere complici di questo sistema. Non fare nulla per inserire le donne nel mercato del lavoro è essere complici di questo sistema. È tutto collegato. E la responsabilità della politica è enorme: non ha garantito nessuna tutela e ha peggiorato in maniera inconfutabile le nostre condizioni di vita.

È vero che la violenza – agìta e subìta – non conosce classe sociale, livello di erudizione, età e nazionalità. Ma è altrettanto vero che dentro questo meccanismo non si possono non rilevare azioni concrete che mettono sempre più a rischio la condizione femminile. La minaccia economica, per esempio, continua a essere uno degli strumenti più diffusi per non permettere alle donne di andare via. L’immagine svilita della narrazione politica del corpo delle donne, da sinistra a destra, ha accentuato e giustificato il comportamento di sopraffazione.

Una conferma di tutto questo ci arriva ancora una volta dai numeri: aumentano infatti le violenze fra le giovani generazioni e la maggior parte delle uccise quest’anno non aveva superato i 35 anni. In tempi di crisi, l’umanità che ci troviamo di fronte è un’umanità abbrutita, di sconvolgimento dei ruoli. Se da una parte lo stato di precarietà avvicina i ragazzi e le ragazze e li mette nelle condizioni di ragionare intorno ad un’idea indifferenziata di cittadinanza, dall’altra parte la condizione “nuova” per i giovani uomini di non rispecchiare il modello materiale del padre – il ruolo che gli è sempre spettato nella società – porta con sé un lutto senza elaborazione con dentro un grande carico di violenza. Oggi l’unica “cosa” che puoi possedere è un’altra persona.

E chi subisce non è così lontano da questa logica: forse ti convinci davvero di essere la “cosa” più preziosa, la “cosa” che può arrivare al punto di farlo impazzire. Ci tiene così tanto a te da perdere il controllo delle sue azioni. Chi ti ha mai desiderata così tanto? La dipendenza psicologica che si crea è talmente forte da non distinguere più il bene dal male, l’amore dalla violenza. È difficile per chi lo vive, difficile per chi ti guarda. Troppe volte ho sentito utilizzare espressioni del tipo: “Ma perché non se ne va?”, “Se la sta cercando”. Fino a quando questa dimensione non ce l’hai accanto a te o ti attraversa non riesci a capirla.

Come si spiega la paura? È consapevole e inconsapevole? Come ci si difende dalla violenza sociale di chi ti guarda e pensa che è colpa tua? Non sono interrogativi personali, non è una dimensione intimista: a queste domande dovremmo rispondere tutte e tutti, a queste domande dovrebbe dare una risposta – finalmente – la politica.

Nessuno di questi temi è neutro. Per questa ragione non può che caratterizzarsi a partire da qui oggi un soggetto politico di Sinistra. Quello di genere, della violenza maschile sulle donne non è un settore, non è e non deve essere un “dipartimento” dentro l’apparato di partito. Di più: non è nemmeno una commissione alle pari opportunità. Voglio fare un esempio concreto. La prima legge sullo stalking in Italia l’abbiamo avuta grazie al ministro delle Pari opportunità del Governo Berlusconi, Mara Carfagna. La battaglia cominciò nella XV legislatura ed era stata promossa dalle parlamentari del centro-sinistra, ha visto la luce da un Governo e da una donna di destra. Oggi, grazie a quella legge, le donne possono denunciare.

Ma questa vicenda e questo Governo ci confermano anche che la politica non è affatto neutra e che bisogna guardare alla complessità della politica delle donne e degli uomini. Perché è sempre lo stesso Governo Berlusconi, con Mara Carfagna in carica, ad avere rinserito le dimissioni in bianco, portato l’occupazione femminile ai minimi storici soprattutto al Sud, smantellato il diritto allo studio, demolito qualsiasi forma di welfare esistente. Ecco perché o le pari opportunità le concepiamo come azione che interviene in tutti gli ambiti dell’esistenza, oppure l’azione sarà sempre limitata a quella che in questo Paese viene considerata una vertenza di una parte e non di tutte e tutti. Noi che vogliamo fare?

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“Ragazze interrotte” anche dal maschilismo di Sinistra.

Il 3 e il 4 marzo alla Casa Internazionale delle donne di Roma si terrà “Ragazze interrotte”, un incontro nazionale promosso dalla Rete delle donne di Sel aperto a tutte e a tutti, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, ai movimenti.
Sono tanti i motivi che ci hanno spinte a organizzare questo meeting: l’esigenza di approfondire quella che definiamo la “crudeltà della crisi” e la necessità di raccontare la precarietà di più generazioni, la richiesta di denunciare la necessità di più rappresentanza e il bisogno di una schietta e libera riflessione sui movimenti passati e recenti. Ma c’è anche altro dietro questo appuntamento, un punto su cui si fatica a discutere perché investe direttamente lo spazio politico in cui ci muoviamo e ci riconosciamo: la sinistra. C’è l’ambizione di mettere in discussione la propria “comunità” su elementi che dovrebbero essere fondativi dello stare insieme per fare politica. Una dimensione scomoda e complessa, che attiene all’analisi, all’azione e alle relazioni.
Non è solo mancanza di attenzione, che pure esiste, alle questioni che storicamente ci mettono al centro della differenza: la violenza, il welfare, la rappresentanza. È piuttosto un’incapacità di sguardo che attraversa tutta la lettura del politico e del sociale. Non si tratta della cessione del potere, quanto piuttosto della trasformazione del potere che la sinistra non è in grado di costruire.
Ecco perché spesso le “quote rosa” o la cosiddetta “parità di genere” viene vissuta dagli uomini e dalle donne come uno strumento ingiusto: perché costringe da una parte e delegittima dall’altro. In questi casi, entrambi invocano la meritocrazia. Una parola che non è mai appartenuta al nostro vocabolario e che esce fuori in relazione alle donne.
E allora, guardando la sproporzione negli organismi dirigenti che sono tutti a maggioranza maschile (quando non viene imposta una norma statutaria), potrebbe apparire inevitabile affermare che gli uomini sono più bravi delle donne. Qualcuna si affannerà nel dire che è una questione di “tempi maschili”, che non permettono un’adeguata partecipazione. È vero, ma sappiamo bene che non è solo questo: la conciliazione non è la soluzione al problema.
C’è invece un timore strutturale che impedisce alle donne di esprimersi liberamente dentro i partiti. Riguarda l’esposizione pubblica, riguarda lo scontro politico interno. Ecco perché diventa più facile essere delle grandi organizzatrici e non delle protagoniste nel sistema. Naturalmente c’è anche chi emerge: sono le più brave o sono quelle che si sono adeguate meglio a un modello maschile? Forse un po’ entrambe le cose. Certo è che non è mai facile. Non è mai facile la partecipazione, non è mai facile lo svelamento.
Riconoscere, ammettere e denunciare la discriminazione di genere quando viene agìta dai tuoi compagni di viaggio, dagli uomini con cui condividi un progetto politico è quanto di più complicato possa esistere in un sistema chiuso come un partito. È una forma di violenza: speri sempre di aver capito male, di aver frainteso, addirittura a volte arrivi a pensare che forse è colpa tua. Non sono pochi i casi in cui la fisicità e la “bella presenza” delle compagne diventano segno di poca autorevolezza e ostacolo allo svolgimento delle funzioni dirigenziali. L’ingenua rassicurazione che viene dagli uomini peggiora le cose: nessuno mette in discussione l’intelligenza, forse però per quel ruolo in quel territorio specifico c’è bisogno di un’immagine più “dura”. Niente a che vedere con la politica.
Avviene anche che chi la discriminazione è in grado di riconoscerla preferisca comunque sacrificarla sull’altare del “potere consolidato” e del “consenso necessario”. Perché schierarsi a favore della bellezza e contro la discriminazione se dall’altra parte c’è tutto quello che serve? Semplicemente perché non è davvero quello che ci serve.
Oggi più che mai la Sinistra ha bisogno di essere alternativa, di essere popolare. Di non rispondere a una logica speculativa che la metta al pari degli altri. L’antipolitica nasce a sinistra, non a destra. E nasce dal disprezzo nei confronti di un modello lontano dalle difficoltà che investono la condizione umana ed esistenziale di tante e di tanti, di troppi in questo Paese.
Il tema dei diritti deve essere al centro della dimensione politica. In questo senso decliniamo la crisi e in questa direzione proviamo a trovare delle soluzioni economiche capaci di sostenere il concetto concreto e non astratto di giustizia sociale. Di tutto questo parlerà “Ragazze interrotte”. All’interno dei workshop di approfondimento e nell’assemblea plenaria che non a caso abbiamo voluto alla presenza del nostro segretario nazionale Nichi Vendola. Con una consapevolezza: la denuncia che parte da noi, dai nostri luoghi del fare politica, non ha la funzione di strappare qualche riconoscimento in più o maggiore rappresentanza. L’idea che sottende questa due giorni è molto più ambiziosa: è l’inizio della costruzione di una nuova sinistra, è la possibilità di rileggere insieme i processi presenti per individuare le prospettive future. È il tentativo di riconnetterci con un mondo che è lì fuori, che non ci aspetta, e che ha bisogno di tutte quante noi.ragazze interrotte
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Il popolo rosa

Spesso nel mio partecipare alla politica mi sembra di stare dentro una bolla di sapone. Perché proprio mentre viviamo una fase che imporrebbe un’analisi complessiva dello Stato delle cose e un’accurata generalità, ognuno è impegnato a ragionare su un segmento talmente staccato dalla dimensione organica del problema da trasformarsi in un elemento astratto e anacronistico.
C’è chi si occupa dei “giovani”, delle “donne”, dei “migranti”, dei “gay”. Tutto questo come se non si stesse parlando di umanità, come se i diritti si potessero racchiudere in categorie ascrivibili solo ad alcune persone e ad altre no. Chiaramente l’analisi della società ci evidenzia con esattezza questa privazione, ma l’elaborazione politica dovrebbe immettere nell’azione pubblica la consapevolezza che in realtà di questa privazione siamo tutti vittime. E invece le competenze specifiche di alcuni questioni si trasformano in settori separati dal grande quadro sociale per confinarsi in piccole porzioni di analisi e di rivendicazioni che – proprio perché settoriali – diventano forme di rivendicazione quasi obsolete.
Oggi, più che in altre epoche, non si può non tenere conto dello stato dell’economia e della profonda crisi che sta attraversando il Paese, del livello d’impoverimento accumulato, della disuguaglianza sociale prodotta, dell’inaccessibilità di almeno due generazioni al mercato del lavoro, del peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, della demolizione di qualsiasi forma di garanzia di sopravvivenza statale. Se il quadro in cui ci muoviamo è questo – e purtroppo è questo – la rivendicazione politica di fuoriuscita dalla crisi globale deve portare con sé degli elementi di realtà: deve rispondere a necessità e bisogni veri, impellenti, cogenti. Questo naturalmente non significa non avere una prospettiva, un progetto, un’aspirazione di lungo periodo, significa però che anche il modello futuro si deve costruire rispondente alla modificazione storica in atto (o avvenuta) che obbliga a ripensare alcuni concetti apparentemente intoccabili. La concezione del lavoro, e conseguentemente di welfare, per esempio rientra fra questi: va bene (?) insistere nel chiedere un contratto a tempo indeterminato, ma mentre qualcuno riuscirà in questa faraonica impresa, preoccupiamoci di come la stragrande maggioranza dei giovani, meno giovani e giovanissimi di questo Paese possano campare adesso prima ancora che domani. La precarietà non tutelata – quindi evocata in tanta propaganda partitica, delegata alla “questione giovanile” e demandata anche nelle piazze agli stessi giovani di sempre – rientra esattamente nella politica che non può e non deve essere categorizzata. I giovani sono e stanno da tutte le parti: sono operai, sono professori, sono la manodopera migrante, sono le donne.
Di questo nella convention di Siena del “Se non ora quando” non si è tenuto conto. Una grande partecipazione, un migliaio di donne venute da tutte le parti d’Italia, con in mente la voglia e la consapevolezza di poter (ri)contare qualcosa, di poter determinare scelte e di voler prendere parte alla politica. Bellissimo. Fa un certo effetto in una cornice splendida come quella di Siena vedere tanti volti di donne, tante storie, tanti accenti diversi. Ti emoziona, ti commuove ritrovare in molti sguardi quello di tua madre, ti dispiace non incrociare quello di tua sorella o di tuo fratello.
Perché il primo dato che va sottolineato è proprio questo: a differenza del 13 febbraio – che ci ha visti in piazza tutte e tutti insieme – a Siena la platea era tutta al femminile e con un’età media alta. Non c’erano le trentenni e non c’erano le ventenni. Chiaramente sul palco ci sono state e alcune hanno fatto anche interventi importanti che hanno sottolineato proprio come quella convention non stesse parlando a loro, altre hanno fatto quello che le altre non potevano fare, cioè parlare del web, dei social network e di tutto ciò che attiene alle nuove tecnologie, e altre ancora invece hanno ringraziato per l’opportunità offerta di essere lì. Ma sotto quel palco, in quel prato affollato, intorno alla viuzze invase dai turisti che affacciano per ascoltare e capire, di ragazze non c’era neanche l’ombra. E non stupisce affatto perché l’appuntamento di Siena appunto non parla di noi e non parla con noi.
Tre temi affrontati nella discussione: lavoro, maternità, rappresentanza. Quale lavoro? Quale maternità? Quale rappresentanza? La politica della conciliazione, la battaglia sulle dimissioni in bianco, per esempio, presuppongono il fatto che tu un lavoro ce l’abbia. Decidere perciò di schiacciare la dimensione della discussione politica su questo significa non analizzare la fase in cui versano donne e uomini di questo Paese. Siena, da questo punto di vista, per me ha rappresentato una bolla di sapone che ogni tanto veniva fatta scoppiare da interventi forti – non a caso di giovani – che anziché accoglierli e lasciarli liberi di fluttuare – venivano puntualmente normalizzati.
Un altro aspetto che mi ha colpita è la trasversalità con la destra, anzi più che con la destra bisognerebbe dire con la Perina e con la Bongiorno (perché a me non risulta davvero che sul territorio ci siano donne di Fli impegnate nei comitati Snoq). E comunque ogni qual volta una donna prendeva il microfono ponendo una distanza di visione dalle idee incarnate da queste due “compagne” di viaggio, si veniva bacchettate in nome di una trasversalità necessaria. Addirittura anche dopo l’intervento di Lidia Menapace, peraltro accolta con un’ovazione, si è ritenuto di dovere ancora una volta correggere il tiro. Eppure penso che non ci sia niente di scandaloso nel trovare fuori luogo una metafora imbarazzante come quella usata dalla Bongiorno nel farci capire che la maternità è cosa più difficile che scegliere una borsa Prada o Chanel. Sarebbe il caso, sempre in un’ottica trasversale, che prendesse lezioni di metafore da Bersani.
E penso che non ci sia niente di male che qualcuna abbia sentito l’esigenza di dire alla Camusso, proprio perché le donne non vivono in un’altra dimensione, che ha sbagliato a firmare l’accordo. Si potrà avere un’opinione su questo o dobbiamo parlare solo di maternità? E invece considero inspiegabili alcuni applausi e alcuni fischi a Rosy Bindi. Applausi nel momento in cui esordisce dicendo che non ha mai fatto parte di movimenti femminili e femministi, fischi quando dichiara di voler portare le istanze di quella due giorni dentro il Pd. Inspiegabili gli applausi perché mi sfugge realmente cosa ci sia da valorizzare in una dichiarazione del genere: dovremmo essere a limite noi giovani a sentire il peso di una storia che non abbiamo vissuto e che ci ha condizionate e invece paradossalmente è Valentina, una ventenne di Genova, a dover andare in difesa di quella esperienza della quale in tante lì cercano di sbarazzarsi. Come se bastasse questo per rappresentare il (di)nuovo. Forse prese dagli applausi per festeggiare il quesito referendario sul legittimo impedimento – che, a detta di qualcuna, è stato quello su cui le donne si sono impegnate di più (?) – hanno dimenticato quello sull’aborto e sul divorzio. Quando invece Rosy Bindi esprime totalmente la sua funzione, altrettanto paradossalmente, viene contestata. Il comitato “Se non ora quando” vede al suo interno un evidente presenza partitica e di area culturale di riferimento del Pd, ma dietro la sigla dei comitati questa cosa non disturba. Esplode invece nella rappresentazione istituzionale. La stessa rappresentanza istituzionale che si invoca, che si cerca, che è centrale in tutti i ragionamenti: le donne devono votare le donne, le donne devono confrontarsi col potere, devono contare di più, sono laureate, sono capaci, meritano di non dover fare le commesse (ci ha spiegato un’economista), devono stare dentro le istituzioni. E poi? E poi le fischi, come è stato fatto anche con Livia Turco, nel momento in cui parlano del loro partito.
C’è qualcosa che mi sfugge: mi sfuggiva nei confronti del Popolo viola, mi sfugge nei confronti dei movimenti nati intorno a uomini politici, mi sfugge nei confronti del “Popolo rosa”. Non c’è giudizio in questa osservazione. Anzi, ne scrivo perché colpita, perché interessata a comprendere le cause e le dinamiche. Di una cosa però sono sicura: il 13 febbraio è morto e sepolto. Siena ha aperto un’altra partita vediamo dove porterà.
pubblicato sul settimanale Gli altri
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Sdisonorate – Le mafie uccidono le donne

Perché un lavoro sulle donne vittime delle mafie? La risposta più scontata è legata all’attualità. Oggi che finalmente nessuno, almeno pubblicamente, nega la presenza della criminalità organizzata in Italia e nel mondo, nell’analizzare i vari aspetti – l’origine, la struttura, l’articolazione, lo sviluppo, la produzione economica, politica, sociale e culturale – è quasi naturale occuparsi anche anche del “segmento” femminile. Che la compone, che la subisce.

Ma attraverso questo dossier non ci vorremmo limitare a mostrare dei dati che testimoniano la presenza di genere all’interno del fenomeno o conseguentemente al fenomeno. Le storie che abbiamo raccolto – che vanno dalla fine dell’800 ai giorni nostri – dicono molto di più. Servono a capire la natura stesse delle mafie, i “sentimenti” che le muovono, la cultura di cui sono portatrici, il sistema di “valori” che le caratterizza, il modello sociale di riferimento in cui hanno potuto farsi strada.

L’impero economico che le cosche mafiose sono riuscite a realizzare è frutto di una coercizione criminale che trova origine e spazio dentro comunità chiuse, in tessuti sociali capaci di accogliere in maniera deformata concetti come l’onore, il rispetto, la fedeltà. Qualcuno – non senza ragione – potrebbe definirle “comunità arcaiche” e, in alcuni casi, di provincialismo spinto. Sicuramente questa espressione è più che appropriata, ma non è sufficiente. In realtà infatti l’ “arcaico” investe anche la modernità e la contemporaneità.

Ed è qui che entra in gioco il soggetto/oggetto femminile. Le donne in maniera trasversale rappresentano quell’elemento di “normalizzazione” e nello stesso tempo di “eccezionalità” che caratterizza il fenomeno criminale. L’esempio più lampante è la vendetta. Le donne per le mafie sono causa ed effetto, ma sono anche fonte di giustificazione e occultamento. Si potrà notare, leggendo le storie riportate, che la maggior parte degli omicidi volontari fatti sulle donne sono stati causati dalla vendetta nei confronti di padri, fratelli, mariti.

Il torto subito in un contesto che non le riguarda direttamente: la guerra tra cosche per il controllo del territorio, lo sgarro perpetuato tra boss o affiliati, affari economici irrisolvibili se non attraverso il sangue trovano l’apice della soddisfazione e del risarcimento colpendo donne e bambini. Cioè attraverso l’oggetto più importante del possesso. Questa dimensione vendicativa trae spunto dalla condizione storica femminile, dalla concezione familistica e dal patriarcato sociale. Colpisco la “cosa” che ti è più cara e simbolicamente, per questo motivo, quella che non andrebbe mai colpita. È lo sfregio più grosso da ricevere e anche il più infamante da commettere. Infatti per lungo tempo le mafie nell’immaginario collettivo seguivano un “codice d’onore” che impediva esattamente di colpire queste due categorie: donne e bambini. Specularmente come fintamente si pregiano del “codice d’onore” che non tocca le donne, dichiaratamente mettono in atto il “delitto d’onore” che è rivolto solo alle donne. È del tutto naturale e non desta alcuno scalpore uccidere per lavare la macchia del tradimento. Un tradimento che non deve essere necessariamente di natura sessuale, ma può essere anche quello avvenuto attraverso la denuncia di un mafioso o, addirittura, l’istigazione alla denuncia messa in atto nei confronti di qualcuno del clan, tentando di convincerlo a pentirsi. E non desta scalpore neppure uccidere per via dell’offesa alla “morale della famiglia” come, per esempio, una relazione extraconiugale da parte di una figlia, di una sorella o comunque una donna associata in qualche modo a un clan. O, ancora, una relazione con una persona che non si piega alla logica della famiglia. Per questo oltre alle mogli e alle fidanzate, dentro la categoria del “delitto d’onore”, si possono inserire anche le figlie o le sorelle. Quindi da una parte un codice di facciata come abbiamo avuto modo di documentare, dall’altra la rivendicazione di una morale pubblica. Le donne così sono bersagli diretti e indiretti del contendere, ma sono sempre e in ogni caso i soggetti/oggetti su cui rifarsi in uno stato di guerra. E di guerra quotidiana si parla anche se le strade non sono tutti giorni lastricate di sangue. C’è la guerra del discredito, della menzogna, dell’occultamento per il mantenimento dello status quo.

Se un uomo ha osato ribellarsi ai soprusi, al potere mafioso a tal punto da dovergli chiudere la bocca per sempre, un modo per decostruire quel messaggio di forza e distruzione totale dell’esempio positivo è sempre l’utilizzo della donna. L’hanno ucciso non perché aveva denunciato, non perché non aveva pagato il pizzo, non perché si era rifiutato di fare un favore: l’hanno ucciso “per questioni di donne”. Questo meccanismo permette di negare l’atto ribellistico e di giustificare l’atto di ritorsione.

Nella società della barbarie, il fatto di aver importunato la donna di qualcun altro, magari pure di un intoccabile, attutisce il colpo, alleggerisce il disagio per quella morte. Nessuno, tranne in rari casi, sarebbe disposto ad ammettere così apertamente che l’omicidio d’onore è tutto sommato una reazione comprensibile. In compenso invece è molto comune la formula di svilimento: la maggior parte delle vittime di mafie si porta dietro queste ombre che puntualmente vengono tirate fuori in un momento di esaltazione o di ricerca di verità e giustizia.

Le donne servono per alimentare il silenzio, il silenzio che serve alle cosche per andare avanti nei propri affari. La cura del silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Sono madri, mogli che subiscono o che, con complicità, agiscono e creano la cappa d’isolamento del territorio in cui vivono, operano e inviano ordini.

Sono però anche quelle che quando rompono il silenzio mettono in crisi l’intero sistema. È una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono sempre donne quelle che in Calabria stanno indebolendo la ‘ndrangheta. E per queste donne le mafie mette a disposizione un altro strumento di morte, simbolicamente addirittura più forte dell’omicidio perché “autoinflitto”, “autoindotto” che è il suicidio. In tutte e tutti è rimasta nel cuore la storia della piccola Rita Atria che decise di togliersi la vita dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, il magistrato che in quel momento la stava sostenendo e proteggendo dal sistema mafioso che lei aveva deciso di denunciare dopo l’assassinio del padre e del fratello. Ma purtroppo di suicidi, alcuni anche estremamente anomali, la cronaca delle “pentite” e delle collaboratrici di giustizia ne sta sommando tanti altri. Degni di sottolineatura sono quelli che si sono collezionati in Calabria, se non altro perché il modo con cui queste donne hanno deciso (?) di non parlare più è identico. Tita Boccafusca e Maria Concetta Cacciola hanno taciuto per sempre ingerendo acido muriatico. Non è una morte indolore quella che hanno scelto anzi, quindi non è attribuibile a questo la decisione. Piuttosto questa modalità può essere nello stesso tempo interpretata come “monito”, come resa, come estrema punizione per aver parlato. Dalla bocca sono uscite delle rivelazioni che non si dovevano fare e attraverso quella stessa bocca si lava via la tentazione di continuare, la disperazione di averci provato, il disonore di averlo fatto.

Il vero disonore però purtroppo risiede da altre parti, risiede in questo elenco di vittime che vi presentiamo, tutte in qualche modo innocenti. Lo sono quelle che hanno avuto la sfortuna di passare per caso da una strada in cui stava avvenendo una sparatoria e quelle che hanno tradito. Lo sono quelle che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro e quelle che hanno denunciato.

Alcune di loro – va detto – sono morte per mano di altre donne, e infatti non ci interessa con questo dossier fare l’apologia della figura femminile nelle terre di mafie. Anzi non sfugge a nessuna di noi come negli anni si sia rafforzato il ruolo delle donne all’interno della criminalità organizzata. Il nostro obiettivo in questo caso non è la descrizione di una parte del sistema, ma è per un verso la necessità di restituire dignità a delle donne dimenticate e per l’altro di svelare il falso mito del “codice d’onore” delle cosche. daSud da anni dedica parte della sua attività al recupero della memoria delle vittime e al rovesciamento di verità apparentemente immutabili. Ci sembrava fosse necessario su questi nomi offrire oltre che le storie anche una nostra interpretazione, offrire uno svelamento a tanta ipocrisia e omertà che le circonda. A loro, e a tutte le donne che invece continuano a fare antimafia, dedichiamo questa ricerca.

Celeste Costantino
Prefazione di “Sdisonorate – Le mafie uccidono le donne”, dossier dell’associazione daSud