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Femminicidio, violenza sulle donne. Priorità prossimo Governo

VIOLENZA SULLE DONNE: FLASH MOB A ROMABasta con le lacrime di coccodrillo, basta con gli appelli retorici: il femminicidio altro non è che l’atto conclusivo di una spirale di violenza che si consuma quotidianamente sotto i nostri occhi e di cui colpevolmente la politica continua a non volersi fare carico. Perché davanti all’uccisione di una giovane donna per mano del proprio ex fidanzatino sono tutti pronti a fare comunicati di indignazione e denuncia salvo poi voltarsi dall’altra parte quando si tratta di intervenire realmente nei confronti di questo problema, cercando le soluzioni più efficaci anche sul piano della legge?

Le prossime elezioni rappresentano l’ennesimo test per un Paese che, di fronte al bollettino di guerra che tiene dentro donne di tutte le età, nazionalità e ceti sociali, alterna l’ indifferenza o la commozione occasionale per questa o quella vittima, senza mai interrogarsi davvero sulle radici del problema.

Alle Politiche i leader e i candidati premier sono tutti uomini. Monti e Ingroia (di Berlusconi è meglio non parlare) non si sono neppure posti il tema della parità di genere e, anzi, in linea con la tradizione politica maschilista di questo Paese, motivano l’assenza con la solita e strumentale balla sulle “quote”: meglio poche ma buone, oppure “abbiamo messo le più rappresentative” o, ancora, “abbiamo troppo stima nei confronti delle donne per utilizzarle come delle razze protette e, infine, “le avremmo volute mettere ma purtroppo non ce ne sono abbastanza”. Sono espressioni che la dicono lunga sul loro modo di stare al mondo e di essere – come si autodefiniscono – “società civile”.
Se la crisi della politica allontana le donne, com’è possibile che nella società civile non ci siano, seguendo il ragionamento dei leader in questione, donne meritevoli, rappresentative e capaci? Forse allora sarebbe più onesto spiegare che semplicemente non si ritiene l’impegno delle donne in politica un punto di “civiltà” e ammettere che è stato più facile, come sempre, fare prevalere la dimensione di potere da ritrovare in altri uomini piuttosto che scegliere di aprire “opportunità” nuove.

Bersani e Vendola invece, dall’altra parte, si vantano con l’opinione pubblica di aver inserito nelle liste, chi più chi meno, il 40% di donne in quota eleggibile. Non mi piace, per ragioni di fondo, l’espressione utilizzata nel descrivere questa scelta perché allude ad un potere discrezionale che resta in mani maschili. Per questo penso che si debba lavorare ancora molto sul linguaggio della politica e sulle pratiche. E sarà possibile compiere questo passo soltanto se noi donne saremo presenti, protagoniste nella politica. Perché è anche a partire da una presenza forte nelle istituzioni che può vivere e acquistare visibilità il lavoro straordinario svolto in questi anni dai movimenti, dalle associazioni, dalle strutture delle donne.
Naturalmente nessuno vuole e può sostituirsi a questi mondi, ma credo che possa essere fondamentale il ruolo delle donne in Parlamento per offrire un riferimento importante a questi percorsi, aprire un dibattito pubblico nel Paese, legiferare per intervenire realmente nei guasti della società che anche la politica ha determinato.

Dentro questo meccanismo – lo voglio precisare – non esiste una politica delle donne: non c’è un tessuto neutrale che tiene insieme le donne in quanto tali, non c’è una trasversalità politica su “certi” temi. C’è una lettura profonda invece del sistema economico, un’analisi del mercato del lavoro, una concezione del diritto che si colloca da una parte ben precisa. Avere chiaro questo significa oggi occuparsi di noi. La violenza non è staccata da tutto questo. Per questo non m’interessa la proposta di legge Bongiorno che punta banalmente all’inasprimento delle pene per coloro che fanno violenza. Perché per me, per noi, questa non è una questione da inserire sotto il cappello “sicurezza” neppure quando si vuole affrontare il tema della violenza, del femminicidio estrapolandolo dal contesto sociale e culturale. L’inasprimento delle pene sarebbe semplicemente un provvedimento inefficace. La soluzione, semmai, va ricercata nella firma da parte delle istituzioni italiane della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 e nella strada scelta dalla Spagna con la “legge integrale contro la violenza di genere” che assieme, alle pene per gli uomini violenti o all’istituzione di una sezione del tribunale ad hoc, prevede per esempio una maggiore protezione e aiuti per le donne vittime di maltrattamenti.

Alla luce di tutto questo, oggi sono tre le direttrici su cui intervenire: prima di tutto “salvare” e potenziare i centri antiviolenza. La rete Dire, che ha una copertura nazionale, ci segnala che molte strutture non riescono ad andare avanti per i continui tagli, per le difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, per la necessità di costruire sempre nuovi progetti da fare finanziare visto che i centri antiviolenza – che in Italia mancano persino di una definizione precisa – non godono mai di finanziamenti stabili. Sostenere la prevenzione e l’aiuto che arriva da queste strutture è il primo e irrinunciabile passo per non farci complici del terrificante bollettino di guerra contro le donne. Vorrei aggiungere che vanno seguiti con attenzione gli esperimenti importanti che si stanno facendo nei confronti degli uomini che hanno fatto violenza.

La seconda direttrice riguarda invece l’introduzione nelle scuole di una “educazione sentimentale”. L’Italia deve ripensare la sua “cittadinanza”, deve riuscire a dare vita a un nuovo popolo fatto di uomini e donne che insieme scoprono e costruiscono in itinere il senso del piacere, della reciprocità, della dignità dello stare insieme.
C’è poi il grande tema della comunicazione dove pure è necessario lavorare per modificare l’idea e l’immagine delle donne. Non si tratta di moralismo o critica per l’esaltazione della bellezza e del corpo femminile che trasuda da ogni parte. Ma occorre su questo introdurre problemi e questioni, nel dibattito pubblico, chiedersi perché questi elementi debbano essere associati a tutto. Dai prodotti di consumo a ogni aspetto che riguarda la vita delle persone.

Rimane, non certo per importanza, il tema del lavoro che merita un intervento ad hoc, ma che è strettamente connesso alla questione più generale dei rapporti tra i sessi. La possibilità dell’accesso al lavoro, a un reddito minimo garantito, a una parità salariale, alla possibilità di rivestire ruoli apicali, a una indipendenza economica e a una realizzazione professionale: sono tutti aspetti di quella condizione più generale di sicurezza, autostima,dignità, di immagine sociale e simbolica delle donne che può rappresentare un formidabile elemento di tutela per tutte .

L’eredità che ci ha lasciato la ministra Fornero con la sua “riforma” del lavoro è pesantemente negativa: non ha migliorato le condizioni delle donne, benché Fornero avesse anche la delega per le pari opportunità, e le ha peggiorate per tutti, “femminilizzando” il mercato del lavoro nel senso di indebolire diritti e tutele dei lavoratori nel loro complesso.
Una situazione disastrosa su cui è urgente intervenire e che sarà un importante banco di prova del nuovo governo di centrosinistra.

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Isabella, vittima della crudeltà della politica

gastone-sasso98-stationCi hanno abituati a pensare che quando si parla di politica e di economia alcune parole, alcuni aggettivi debbano essere banditi. Così, paradossalmente, i più importanti saperi che si occupano della vita sono quelli che per antonomasia non utilizzano un linguaggio “umano”. Sembra quasi che il rimando all’esistenza individuale e collettiva abbia il sapore di poca serietà.

Non a caso il metallico  Governo Monti risulta essere così autorevole e sobrio anche per la freddezza dell’espressione che lo accompagna. Questo segnala, ancora una volta, la vecchiezza di una classe dirigente che ha una totale mancanza di consapevolezza del reale, di analisi del contesto sociale in cui si trovano ad operare. E che non ha imparato nulla dall’elaborazione politica prodotta in tanti anni dalle donne e dai movimenti lgbtq.

Ecco perché spesso l’arma utilizzata per screditare Nichi Vendola è proprio quella di puntare l’indice contro la sua “modalità” linguistica. Per questo viene etichettato come poeta, e non politico. Per denunciare il fatto che affronterebbe temi importanti per il Paese con un linguaggio poco consono o che ridurrebbe tutto a retorica dialettica inappropriata a fronteggiare la serietà di un momento storico così drammatico. E invece è proprio la drammaticità della fase che dovrebbe obbligarci a rimodulare l’espressione politica. A quella dovrebbe seguire l’azione, i provvedimenti da prendere per andare incontro a un’altra parola che porta con sé una grande pesantezza reale: povertà.

La povertà è una parola scomparsa dal dibattito pubblico di questo Paese, da molti anni. Prima – a cavallo tra gli anni 80 e 90 – perché si riferiva a una sacca sociale circoscritta, poi negli ultimi anni perché è stata sostituita erroneamente con un’altra parola: precarietà. Per un momento probabilmente le cose sembravano coincidere, ma con il perpetuarsi e il radicalizzarsi della crisi, e con politiche che hanno colpito ceti sociali medi e già impoveriti, oggi queste due parole ci parlano di condizioni diverse. C’è stato lo sforzo di attribuire la precarietà non solo a una dimensione generazionale di per sé larga, ma di considerarla come categoria esistenziale e non solo occupazionale trasversale alle età.

Oggi però la realtà ci offre un quadro che supera questa analisi. Oggi in Italia, e in Europa, siamo in presenza di sacche enormi di disoccupazione o di stipendi talmente bassi da non poter garantire neppure le condizioni minime di sussistenza. E questo accade soprattutto negli spazi metropolitani, dove la vita è più cara – dagli affitti ai beni di prima necessità – la povertà si sta ingrossando sempre di più. Gli anziani per esempio che, come racconta il Corriere della sera, vivono con pensioni sempre più falcidiate sono in preda “all’ansia da stress per crisi e aumento del rischio cardiovascolare”. In poche parole, vivono nel terrore, vanno meno dal dentista perché i costi sono eccessivi e corrono persino il rischio della malnutrizione. E non sono i soli, visto che, sempre sul Corriere della sera, leggo un altro articolo dedicato ai “suggerimenti per i tanti che mangiano poco e male pur di far quadrare i conti”. Insomma una sorta di manuale della sopravvivenza. Il vademecum del naufrago. Dieci consigli per non morire di fame.

Come si definisce una crisi così? C’è un termine “tecnico” in grado di riportarci minimamente alla portata di questa tragedia? E ci sono aggettivi freddi, “seri”, responsabili per definire le politiche di diseguaglianza sociale che questo Governo ha messo in campo?

Probabilmente no. Per questo penso che la sinistra debba ripartire dalla consapevolezza della realtà e dalla capacità di nominare le cose. Questa crisi non è solo sistemica e globale, ma è per esempio crudele. E purtroppo la crudeltà è diventata a pieno titolo una categoria politica. Una categoria di cui il Governo Monti si sta avvalendo a piene mani.

Nelle analisi avanzate nelle primarie di centrosinistra ho continuato a riconoscere in Nichi Vendola questa capacità – non di poetare ma di fotografare – e poi ho scoperto in Pier Luigi Bersani la promessa di operare partendo da quella disperazione, dalla vicinanza di quello sguardo. Questo il senso di un’alleanza che si deve preparare a governare l’Italia.

Qualche giorno fa è morta Isabella Viola, una donna che faceva parte di quel popolo di sconosciuti di cui parlavo prima. È morta colpita da un malore su una banchina della metro A di Roma. È morta a 34 anni di fatica, di stenti. Forse qualche tempo fa avrei detto non piangiamo, non commoviamoci per questa vittima del sistema ma indigniamoci, rivendichiamo quei diritti che ad Isabella sono stati strappati via. Oggi invece riconfermo l’indignazione e l’impegno politico, ma credo anche nella necessità di recuperare un sentimento umano che sembra scomparso anche dalla cosiddetta società civile.

In questo la responsabilità risiede anche in chi in questi anni difficili ha incoraggiato movimenti populisti che non fanno altro che abbrutire ed esternare gli aspetti deteriori dello star male. Il movimento Cinque stelle è nocivo in questo Paese quanto il Governo Monti. Il centrosinistra si troverà a fronteggiare tutto questo.

 

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Sud sostantivo femminile

Barletta, crollo di una palazzina
In questi giorni se n’è parlato tanto eppure sempre troppo poco. Piangiamo le vittime, ci colpisce l’età, il sesso ma tra un po’ non lo ricorderemo più fino a quando non succederà a qualcun’altra. La tragedia di Barletta non è un caso, non si trattava di un’emergenza né tanto meno di una calamità naturale improvvisa. Cinque persone, cinque donne, cinque giovani tra cui una minorenne di tredici anni hanno perso la vita e non è stato un incidente, non è stata una casualità.
Lo capisci non solo pensando a tutto quello che si poteva fare e non è stato fatto ma lo capisci dalle reazioni successive l’accaduto, lo capisci da come si esprime la gente di Barletta, lo capisci anche dalla scelta della denuncia. Non è stata la politica o l’informazione ad affannarsi a dirottare tutta la questione sulle crepe di quel palazzo, è stata per prima la popolazione a dire che era inutile parlare di lavoro nero perché tanto a Barletta si sa che è così e che invece bisognava concentrarsi su quel palazzo crollato. La ragazza sopravvissuta alle macerie piangeva, piangeva per quelle giovani vite spezzate e piangeva per il datore di lavoro, una persona buona, seria che ha dato una mano a tutte quante loro e che ha perso anche una figlia in quel lurido scantinato.
Non bisogna giudicare, non si può liquidare questa considerazione come tutta questa vicenda con delle semplificazioni di tipo “giustizialista” ma non si può neanche accettare l’idea di rivendicare la sicurezza del territorio e non più quella sul lavoro perché “in qualche modo bisogna mangiare”.
È comprensibile questa risposta ma non possiamo accettarla. Barletta parla a tutti quanti noi e riapre tante questioni che non si devono più ignorare. Non si può ignorare che esiste un Sud devastato dalla povertà, dalla disoccupazione e dal lavoro nero. Non si può ignorare che esiste una parte di questo Paese che storicamente vive questi problemi e che con la crisi ha visto peggiorare ancora di più la condizione di vita delle persone. Dati drammatici che raggiungono livelli d’insopportabilità soprattutto quando parliamo delle donne, delle giovani donne.
Gli elevati livelli di inoccupazione femminile che si sommano ad un sistema di welfare debole nell’erogazione dei servizi e ancora incompleto nella capacità di tutela sta determinando soprattutto in questa fase di crisi situazioni di grave disagio sociale. In Campania, Sicilia, Calabria e Puglia lavora poco più del 40% della popolazione in età di
lavoro; le donne che lavorano sono meno di 3 su 10. Siamo in una situazione di emergenza sociale, completamente trascurata dalla politica nazionale, che richiede risposte rapide. Inoltre le difficoltà generate dalla fase recessiva sembrano aver in linea generale aumentato la propensione all’«inattività», con un impatto più drastico per la componente femminile. Come ci spiega un rapporto dello Svimez dell’anno scorso ormai sono tante le “scoraggiate” che hanno smesso di compiere azioni formali di ricerca del lavoro perché hanno perso pure la speranza di
trovarlo.
Oggi, contrariamente a quanto avveniva ad inizio anni ‘90, il tasso di scolarità (secondaria) meridionale risulta sensibilmente più elevato rispetto a quello del Centro-Nord. Riflessi di questa migliore scolarizzazione si evincono dai risultati delle indagini sul
rendimento degli studi che mostrano buone capacità delle ragazze meridionali e se si fa riferimento all’istruzione terziaria, i progressi sono ancora più evidenti. La quota di donne meridionali laureate, con 25 anni, è pari al 50% della popolazione di riferimento, avendo raggiunto negli ultimi anni i livelli del Centro-Nord. È una percentuale ben più elevata
rispetto a quella maschile, che si arresta nel Sud al 34,8% (contro il 37,1% del resto del Paese). Straordinari passi avanti sono evidenziati dal tasso di iscrizione all’Università: le giovani donne del Sud, non solo di gran lunga superiore a quella maschile, ma ben al di sopra del tasso di iscrizione femminile del Centro-Nord.
Tuttavia, questi grandi progressi rischiano di essere vanificati da un’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire queste preziose risorse umane, che in mancanza di opportunità di lavoro, come visto, sono destinate inevitabilmente alla emigrazione, specie dei
giovani maggiormente qualificati. E negli ultimi anni, infatti, il tasso di passaggio all’università, dopo un forte incremento, comincia a declinare.
Il fenomeno migratorio negli ultimi quindici anni riflette i profondi cambiamenti che hanno interessato la struttura economica e la società del Mezzogiorno; esso si caratterizza infatti per il crescente coinvolgimento della componente giovanile più scolarizzata e per una maggiore partecipazione delle donne. È proprio questo uno dei principali elementi di diversità rispetto ai fenomeni migratori degli anni Sessanta: una presenza femminile che rappresenta ormai stabilmente quasi la metà dei migranti e in alcune realtà territoriali costituisce la maggioranza.
Si va via per tanti motivi e spesso non è il lavoro a rappresentare la centralità di questo migrare. Le donne fanno i conti con altri aspetti della propria esistenza. Un modello familiare soffocante, un ambiente sociale poco accogliente, una cultura che ci vorrebbe normalizzare. Da questo punto di vista trovo importante che oggi le giovani donne del Sud pratichino il diritto alla mobilità, alla scoperta, alla ricerca. Certo il massimo da raggiungere è quello di riuscire a farlo non costrette ma libere.