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Chiudere i Cie, vero fallimento italiano

Prima gli sbarchi a Lampedusa e in tutta la Sicilia, le donne e gli uomini appese alle reti per la pesca del tonno in mezzo al mare, gli annegamenti, i morti. Adesso gli incidenti nel Cie di Isola Capo Rizzuto. E’ la cronaca, giorno dopo giorno, a dirci che la politica italiana sul fenomeno migratorio è un vergognoso fallimento.

Va rivisto l’intero impianto normativo, soprattutto va al più presto abrogata la Bossi-Fini, una legge che invece di risolvere aggrava i problemi. E vanno chiusi i Cie, delle vere e proprie carceri in cui i migranti reclusi vivono in condizioni indecenti, come rivelano i continui tentativi di fuga, gli scioperi della fame, i tentativi disperati di ascolto.

Non possiamo più permettere queste palesi privazioni dei più elementari diritti.Lo faremo impegnandoci per l’abrogazione di questa legge, lo faremo andando a ispezionare i Centri per denunciare ogni singola violazione.

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#Save194. La mozione di Sel

Martedì prossimo discuteremo in Aula la mozione di Sel – depositata il 20 maggio – sulla piena applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Proponiamo di fissare un tetto per i medici obiettori che non superi il 30%, chiediamo la costituzione di un albo dei medici di famiglia obiettori e la pillola abortiva somministrata solo in regime di day hospital (come già avviene in Emilia Romagna). Inoltre promuoviamo delle campagne informative sull’assenza per legge di un diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti.

Nella nostra mozione ricordiamo inoltre che “in ambito medico sanitario il diritto all’obiezione di coscienza è espressamente codificato e disciplinato per legge”. Per l’aborto facciamo riferimento all’articolo 9 della legge n. 194 del 1978; per la sperimentazione animale, l’obiezione di coscienza è disciplinata dalla legge n. 413 del 1993; per la procreazione medicalmente assistita, c’è l’articolo 16 della legge n. 40 del 2004.

> Leggi il testo in pdf della mozione 1-45

 

 

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È un giorno di grande amarezza. Abbiamo aspettato tanto per arrivare a questa sentenza di primo grado, che oggi purtroppo ridimensiona sensibilmente le responsabilità dei dodici imputati. In particolare l’assoluzione degli agenti penitenziari e degli infermieri è davvero inspiegabile. Come se Stefano Cucchi fosse morto da solo e non mentre si trovava in loro custodia. Sono passati quasi quattro anni dalla sua morte, e due dalla prima udienza del processo. In aula bunker a Rebibbia ho ascoltato la sentenza accanto alla famiglia Cucchi. Pensavo che la giustizia oggi avesso potuto ridare dignità e verità. A loro in primo luogo, che in questi anni hanno affrontato un processo lungo e difficile, e a tutti quelli che si sono battuti per affermare una realtà che era sotto gli occhi di tutti: Stefano è stato picchiato brutalmente in carcere. E lì è stato fatto morire di stenti.
Continueremo ad essere accanto ad Ilaria e ai genitori di Stefano in questa lotta per la giustizia. Rilanceremo con più forza le proposte di Sel: l’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, le urgenti modifiche al testo unico sugli stupefacenti proponendo pene inferiori per il possesso relativo alle droghe leggere, l’abrogazione della “ex legge Cirielli” su recidiva e prescrizione dei reati, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Non è più possibile aspettare: serve un progetto per l’inserimento di pene alternative alla detenzione. Lo dobbiamo a Stefano e a chi come lui ogni giorno vive una condizione vergognosa in carcere, non degna di un Paese civile.

Con Don Andrea Gallo

Si mise dietro la mia sedia, poggiò le sue mani sulle mie spalle e disse: “L’abbiamo adottata”. Si era finalmente fermato e anch’io potevo tirare un sospiro di sollievo. Avevo passato tutto il tempo del comizio a guardargli quei piedi che si muovevano veloci, perché avevo paura che nel suo andare avanti indietro sul palco si potesse attorcigliare col filo del microfono e cadere. Era una rock star don Gallo.

Qualche sera prima eravamo nel suo studio. Il caffè, il sigaro, un sorriso che gli illuminava tutto il viso. Mi raccontava del suo passato e lo intrecciava con la storia del Paese. Non dimenticava nulla ed era disposto a capire. Voleva una promessa però, me lo continuava a ripetere: “Dovete essere sentinelle di democrazia”.

Lo stesso calore che dobbiamo continuare a sentire anche adesso che lui non c’è più. Per loro, per le ragazze e i ragazzi, le donne e gli uomini della Comunità di San Benedetto al Porto. Loro in questo momento si sentono orfani del loro don ed è nostro dovere assicurargli sostegno, affetto, protezione. Chi voleva bene a don Gallo deve volere bene alla sua comunità: a quelli che tutti chiamano gli ultimi ma che per lui sono stati sempre i primi.

Piango sì, come si fa a non piangere, Gallo! Ma non è questo che vuoi da me, che vuoi da noi. Non ti deluderemo. Ci vediamo a Genova, appena arrivo abbraccio Megu anche per te.