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Le dichiarazioni di Carmine Schiavone risalenti al 1997 certificano le evidenze emerse in questi vent’anni di inchieste condotte da giornalisti e associazioni ancor prima che da magistrati e forze dell’ordine: in Campania e in altre regioni del Mezzogiorno i cittadini vivono – e purtroppo muoiono – sopra una montagna di rifiuti speciali e tossici interrati dalle mafie. La decisione di togliere il segreto di stato al documento della Commissione ecomafie interrompe finalmente l’omertà politica e istituzionale che ha sempre caratterizzato il tema della gestione del ciclo illegale (e spesso legale) dei rifiuti da parte della camorra. Le parole del collaboratore di giustizia confermano, qualora ce ne fosse bisogno, la diffusione territoriale del fenomeno, le enormi responsabilità di politici, imprese e organizzazioni criminali che sono dietro l’avvelenamento di vaste porzioni di territorio, nel Mezzogiorno e non solo.

Per tante aziende lungo lo Stivale, a cominciare dalle grandi industrie del Nord, l’interramento e l’incenerimento a cielo aperto di scorie tossiche in luogo di un processo di trattamento ben più costoso, ha rappresentato una ghiotta opportunità di profitto illecito. Così oggi le istituzioni repubblicane che lo hanno (scientemente?) consentito devono fare i conti con un boomerang in termini di costi ambientali, sanitari ed economici. Come sempre, il profitto di pochi è finanziato dalla collettività, con l’aggravante che stavolta alcuni territori e migliaia di persone stanno pagando con la vita.

In questo scenario la politica deve uscire dal silenzio e battere più di un colpo deciso, mostrando di comprendere la portata nazionale del problema e rimodulando la scala delle priorità in virtù del grido d’allarme che giunge dalle province di Napoli e Caserta.

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Sporcarsi le mani. Per la cultura

XL-07-08-2013
“Piacere Manuel”. “Piacere Celeste”. Ma non c’era affatto il bisogno di presentarci. Ho incontrato Manuel Agnelli degli Afterhours dopo aver letto, con interesse mista a curiosità, il numero estivo di XL-Repubblica con l’appello dei tanti artisti che hanno voglia di “sporcarsi le mani“, di prendere posizione e fare politica attraverso la cultura. Un progetto identico a quello che nel mio piccolo ho cominciato a fare dopo la mia elezione alla Camera dei Deputati e l’inizio dei lavori in Commissione Cultura.

“Hai paura del buio?”, si chiede fin dal nome il festival. E non è facile rispondere. Da un lato ne ho molta. Perché nessuno di noi sa su cosa stiamo camminando, quali ostacoli abbiamo davanti e, soprattutto, perché continuiamo ad essere soli ed avvolti in questo silenzio assordante.

Dovremmo interrogarci di più su come siamo finiti a questo punto che somiglia tanto alla “Ceguera” di Jose Saramago. Il nero che ci cinge arriva da lontano, da anni di timori, individualismi e passività. Non vogliamo più dibattere, confrontarci, sperimentare insieme, guardare oltre. Ci siamo chiusi da soli in una stanza e tinteggiato di buio le pareti per non far filtrare nemmeno un raggio di sole. Poi le abbiamo insonorizzate, e fatto in modo che non si sentisse l’accenno di una melodia. Nemmeno per sbaglio.

Nelle scorse settimane ho avuto l’opportunità di esporre al ministro della Cultura Massimo Bray, venuto in audizione, le difficoltà di questo mondo di cui fa parte soprattutto la mia generazione di under35 spesso precari. Sono stati i Teatri occupati, in questi anni, a fare i cartelloni, attivandosi nel campo delle attività e contribuendo alla creazione e alla diffusione dei saperi. Penso al Teatro Valle, al Marinoni, ai siciliani Garibaldi e Coppola di Catania, alla Balena di Napoli. Dove uomini e donne, in rete, sono stati supplenti di fatto dello Stato. Per fare cultura.

Penso sia l’ora di una legge sulla musica, quella dal vivo e non. Aspettare ancora sarebbe un vero danno. Anche per questo voglio incontrare musicisti, band e gruppi che fanno parte di questo e altri festival. Intanto sarò con Manuel e gli altri il prossimo 13 settembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Perché la musica deve crescere, deve avere spazio, deve produrre qualità e ricchezza. Lasciandosi alle spalle tutta la burocrazia (inutile talvolta) per organizzare i live.

E il cinema? Forse si terranno a breve gli “Stati generali del cinema” per riflettere sui problemi dell’industria cinematografica in Italia. Ma niente puzza sotto il naso; deve essere un momento di partecipazione aperto a tutti: dai costumisti ai tecnici, dai grandi registi agli studenti delle scuole di cinema. Con uno spirito unitario che sottolinei la funzione sociale e pubblica delle opere cinematografiche. E che risponda ad una domanda semplice e mai banale: si può continuare a dare contributi pubblici a registi esperti e affermati anziché sostenere produttori emergenti?

Per questo e altro non rimane che chiedersi di nuovo: “Hai paura del buio?” Dico di no, se cerchiamo di uscirne fuori insieme.

Archeologi_al_lavoro.1195719207Oggi con Nicola Fratoianni e Giancarlo Giordano, miei colleghi in Commissione Cultura, abbiamo depositato la proposta di legge per la ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela del patrimonio archeologico firmata dal nostro Paese a La Valletta nel 1992. A 21 anni di distanza infatti solo l’Italia e San Marino, tra i firmatari, non l’hanno ancora ratificata. Mentre ben 41 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno già reso operativo l’accordo sul proprio territorio.

In questi anni è stato accumulato un ritardo nella modernizzazione dell’archeologia, che ha mortificato le competenze del settore e messo fortemente in discussione il ruolo di leadership dell’Italia nel campo della tutela, che un tempo le era internazionalmente riconosciuto.

La Convenzione ha come obiettivo primario la conservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico nelle politiche urbane e di pianificazione: riguarda principalmente le modalità di collaborazione tra archeologi, urbanisti e pianificatori. Formula degli orientamenti sul finanziamento dei lavori di scavo, di ricerca e di pubblicazione di risultati ottenuti.

Nel corso della XIII legislatura era stato proposto al Senato un disegno di legge di ratifica che non ha avuto seguito. Alla stessa maniera gli ex ministri per i Beni e le Attività Culturali, tra cui l’ultimo in ordine di tempo Lorenzo Ornaghi, hanno sempre inserito la ratifica della Convezione tra le priorità del dicastero, ma senza mai darvi seguito. Una petizione dell’ANA (Associazione nazionale archeologi) del settembre 2011 ha raccolto oltre 1800 firme a sostegno della richiesta di ratifica della Convenzione da parte dell’Italia.

La Convenzione, che ha sostituito la precedente Convenzione di Londra del 1969, ha come obiettivo primario la conservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico nelle politiche urbane e di pianificazione: riguarda principalmente le modalità di collaborazione tra archeologi, urbanisti e pianificatori. Formula degli orientamenti sul finanziamento dei lavori di scavo, di ricerca e di pubblicazione di risultati ottenuti. Inoltre il testo si occupa anche di accesso del pubblico, in particolare ai siti archeologici, e delle attività educative da sviluppare affinché la pubblica opinione conosca e apprezzi il valore del patrimonio archeologico. Non ultimo, la Convenzione disegna un quadro istituzionale per una cooperazione paneuropea in materia di patrimonio archeologico, il che implica uno scambio sistematico di esperienze e di esperti tra i diversi Paesi.

La ratifica della Convenzione de La Valletta sarà un potente stimolo per il futuro riordino della materia. Garantirà numerosissimi benefici in termini di miglioramento dell’azione di tutela del patrimonio archeologico e la creazione di nuovi posti di lavoro.

> Il testo della Convenzione
Il pdf con la proposta di legge

 

banner_lacosagiusta_piazzaIl dibattito sul congresso di Sel si è aperto sulle pagine del Manifesto ragionando prima di tutto sui tempi e cioè discutendo sull’annoso dilemma se farlo prima, durante o dopo quello del Pd. Segnale rilevante, che sottolinea come quel partito – ancora e nonostante tutto – rappresenti il soggetto di riferimento per un ragionamento futuro. E, d’altronde, non potrebbe che essere così.

Italia bene comune non è mai stata solo un’alleanza elettorale: teneva dentro una vocazione reale di costruzione del centrosinistra e un’idea forte e concreta di cambiamento del Paese. Pensare pertanto di liquidare quel tentativo significherebbe disconoscere il profilo che abbiamo provato a costruire in questi anni e che coltiviamo in molti enti locali.

Sia chiaro, non ne faccio una questione di logica, la base di partenza è cambiata: il Pd non governa il Paese con noi, ma – male – con il Pdl. Né voglio fare riferimento alla fondazione di Sel, quando ognuno di noi – dandole vita – sosteneva la necessità di scioglierla il prima possibile perché non ci interessava fare l’ennesimo partitino di sinistra. Faccio piuttosto un ragionamento di presa d’atto di un quadro sociale totalmente modificato, che si è tradotto in un voto da decifrare fino in fondo e che invece corriamo il rischio di lasciare in balia di scorciatoie dal respiro corto.
Il pericolo Sinistra l’Arcobaleno (alias Rivoluzione Civile), più volte da noi evocato in campagna elettorale nei confronti di chi aveva mal digerito la nostra alleanza con il Pd, oggi non esiste più. Dentro Sel non è quel fantasma che rischia di farci regredire ma sono altri i percorsi da scongiurare nel nostro dibattito per affermare con fermezza che non ci rinchiuderemo nel perimetro ristretto di noi stessi, che non sceglieremo, per dirla con Vendola, il partito piuttosto che la partita.

Le insidie per me risiedono in un uso strumentale della parola “autonomia” e in un mescolamento con la cultura del “cittadinismo”.
L’autonomia è un valore giusto, fondamentale per un soggetto politico (individuale e collettivo). Eppure dietro questa parola si può celare un desiderio di autosufficienza che, è del tutto evidente, Sel non ha e non può realizzare se non attraverso un percorso di costruzione e di allargamento con ciò che è già in qualche modo riconoscibile seppure oggi lontano: il popolo vasto del centrosinistra diffuso, quella parte amplissima di società che vuole il cambiamento e cerca gli strumenti per praticarlo. E qui arriviamo al “cittadinismo”. La sinistra sociale è in crisi e alcuni fenomeni non sono più interpretabili come meteore quanto piuttosto come aree politiche consolidate, anche indipendentemente dalle ondate elettorali. Per dirla in altri termini, il M5S può anche crollare, come è avvenuto in parte alle amministrative o come è capitato all’Idv, ma non sparirà facilmente la visione di cui è portatore: esiste infatti ormai una cultura politica strutturata che cercherà uno spazio nuovo in cui potersi esplicitare. È un’area che ha tra i suoi dogmi la legalità tout court, la meritocrazia come strumento di giustizia sociale, la difesa oltranzista dell’ambiente. Ed è un’area che ha un’idea protezionista e chiusa nei confronti dell’Europa, che mal digerisce il fenomeno dell’immigrazione e che non considera i diritti civili una priorità per il Paese.

Un discorso a parte meriterebbe il Pd con la sua estenuante e spesso improduttiva dialettica interna ma – per l’analisi delle contraddizioni anche gravi di quello che sagacemente Elettra Deiana ha definito il più grande gruppo misto presente in Parlamento – non basterebbe un intero articolo.
Ecco perché l’autonomia è salutare, ma non andrebbe applicata in relazione a un soggetto politico o un altro, quanto piuttosto rispetto a un’analisi e a un’elaborazione che tiene conto di un quadro sociale completamente mutato e in continua trasformazione. Sel è la testimonianza di questo: dalla derisione al rischio Vendola Presidente del Consiglio, dal silenziamento alle elezioni. Proprio quest’ultimo passaggio è quello che ci ha aperto di più gli occhi sul vero stato del Paese. E su quanto gli assomigliamo.