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Dei tossici non frega a nessuno, tranne che alle mafie

ostia

Stamattina come ogni mattina ho preso la metro. Mentre scendevo le scale, ho notato un ragazzo e una ragazza aggrappati ai passamano, bianchi come le lenzuola, sguardi persi. A malapena riuscivano a reggersi in piedi. Erano evidentemente strafatti di eroina. Ed erano solo le nove del mattino.
Qualche giorno fa, in farmacia, una ragazza giovanissima è entrata con il fiatone, sembrava non riuscisse a respirare, l’ho fatta passare avanti. Ha chiesto una siringa: era evidentemente in crisi d’astinenza, sempre da eroina. Saranno state, anche lì, le nove del mattino.

Non credo di essere l’unica a vedere. Non credo di essere l’unica a capire cosa sta succedendo nelle città. Eppure non ne parla più nessuno, sicuramente non ne parla la politica. Quando ero bambina, alla fine degli anni 80, sentivo che i coetanei di mia sorella, più grande di me di sette anni, morivano di overdose.
Erano gli anni di “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” e, a Reggio Calabria, in una spiaggia della città ogni tanto veniva recuperato il cadavere di qualche ragazzo. Tanti, troppi. Fratelli e sorelle di amici d’infanzia, ragazzi del quartiere che vedevi ogni giorno dalla finestra che andavano in giro con il motorino e che improvvisamente scomparivano come in una puntata di The Leftovers.

La mia generazione è cresciuta con la paura dell’eroina. Potevamo farci di tutto, ma di eroina mai. Da quella non si tornava indietro.
Erano gli anni degli opuscoli con Lupo Alberto nelle scuole che ti spiegavano come prevenire l’Aids ed evitare il contagio da siringa.
Degli ambienti nostri, quelli della Sinistra, dove l’eroina era merda da cui tenersi lontano.
E noi, molti di noi, infatti per fortuna ce l’hanno fatta.
Adesso siamo tornati indietro. Con una differenza sostanziale: oggi c’è un silenzio assordante. Da parte delle istituzioni, dei media, delle scuole.
C’è tanto spazio per la retorica sulle periferie, ma anche in quella retorica, delle mafie
che controllano interi pezzi di città non parla nessuno. Il parlamento non parla neanche delle cooperative, delle associazioni, delle unità di strada.
C’è una proposta di legge sulla legalizzazione delle droghe leggere che, paradossalmente, ci permetterebbe di rimettere mano su tutto. Di ripensare l’informazione, la prevenzione e il contrasto alle droghe pesanti.
Purtroppo però è impossibile aprire una discussione. Eppure tutti gli studi ci dicono che ci sono i consumatori di ritorno – quelli dei famosi anni 80 – e poi ci sono i nuovi consumatori di una fascia di età larga che comprende anche i giovanissimi.

Sono i consumatori che ci ha raccontato il maestro Caligari anni fa con “Amore tossico” e più di recente con “Non essere cattivo”.
Ma noi non siamo artisti, noi abbiamo delle responsabilità in più. Quella di fermare un’economia criminale che produce controllo del territorio, violenza e morte. Non è più il tempo dello shock per quello che accade ogni giorno a Tor Bella Monaca, San Basilio, Torpignattara e Ostia, per i paragoni con Scampia per il degrado, senza che venga mai invece l’ora di quella analisi necessaria che a Napoli – non da oggi – si fa sulla camorra.

Definire la mafia in quel territorio ha permesso di attrezzarsi di individuare degli strumenti per contrastare il fenomeno per offrire delle opportunità. Qui c’è il lavoro prezioso dei servizi sociali e delle forze dell’ordine,ma manca la politica. La politica che si fa carico – su Roma – di un problema strutturale. Mafioso. Tutto è spostato su Mafia Capitale, sull’inquinamento della macchina amministrativa (anche ieri la cronaca ci ha mostrato la gravità della situazione), rimuovendo le mafie tradizionali ‘ndrangheta e camorra che sulla droga mantengono un business che non conosce crisi. Loro decidono l’offerta, loro dirottano i consumi – in questo momento l’eroina costa meno della cocaina – sono loro a dartela in omaggio. A fare i tre per due. A distruggere la vita di intere famiglie. Famiglie che ritornano nell’ombra, che non vengono aiutate da nessuno. Perché l’odio sociale ci racconta che “quelli” se la sono andata a cercare. La droga non è una disgrazia, è una scelta. Certo, tutto può essere una scelta. Ma, forse, in alcuni contesti fare la cosa giusta è più difficile che in altri. E dentro questo “forse” si sostanzia la politica.

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Una mia prima considerazione

Dopo questi risultati nessuno può non capire o far finta di non sapere: il quadro è definitivamente mutato. Lo schema dentro il quale tanti di noi hanno iniziato a fare politica oggi non esiste più. È un processo maturato nel corso del tempo, ma queste amministrative indubbiamente lo sanciscono in maniera chiara e netta. Non esistono più soltanto i due grandi blocchi di centrodestra e centrosinistra. C’è anche un terzo polo incarnato a livello nazionale adesso dal M5S – ma, per esempio a Napoli, da De Magistris – che indica che una grande fetta di Paese non crede più ad un racconto ideologizzato per definizione, cioè a un’identità politica che si caratterizza a partire dal campo in cui ci si trova.

Se si dice Sinistra per esempio – così parliamo di noi – non si dice più nulla. Quella parola in sé non significa più niente, non porta in automatico né i soggetti a cui si riferiva e né tanto meno evoca le pratiche con cui migliorare la condizione di vita dei soggetti che voleva rappresentare.

L’ha capito bene e per tempo Podemos in Spagna e l’ha capito in Italia, in chiave territoriale, De Magistris che infatti lì surclassa anche il M5S.

Ecco perché insisto molto sulla nostra autonomia: perché un progetto – se è libero di definirsi attraverso la pratica politica – può entrare in connessione con quel mondo che ad oggi sembra essere intercettato solo dal M5S. Napoli invece dimostra che è contendibile se si gioca sul terreno dell’ascolto dei bisogni e sulla ricerca delle soluzioni possibili.

Quello che non abbiamo fatto noi in questi anni e quello che non ha fatto il Partito democratico che infatti esce distrutto da queste elezioni. A Roma non fa impressione il voto di stacco tra Raggi e Giachetti sul Comune ma è sconvolgente il risultato dei Municipi dove il Pd è in grado di riconfermare solo due presidenti su 14, al centro storico e ai Parioli.

Insomma se abbandonassimo le polemiche e fotografassimo la realtà adesso per noi si potrebbe aprire una fase entusiasmante. Senza più l’assillo delle elezioni e delle alleanze ma solo tanta voglia di ri-immaginare idee, pratiche, strumenti, soluzioni e progetti. Adesso c’è ed è il tempo per farlo.

 

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Questa è la sfida. Ed io voglio esserci.

CELESTE

Ieri si è tenuta la riunione di Sinistra Italiana sull’analisi del voto: è stata una discussione franca, attraversata da una palpabile tensione ma assolutamente ricca di analisi e riflessione. Voglio condividere con voi alcune considerazioni fatte nel mio intervento. Tutti hanno sottolineato che, a queste elezioni, c’è stato il crollo dell’opzione renziana. Lo penso anche io, ma c’è di più: indubbiamente possiamo parlare di opzione renziana – perché i candidati sono espressione diretta del premier – ma in realtà a crollare è stata l’unica opzione esistente nel Partito democratico. La minoranza Pd è totalmente ininfluente. Anzi, più prova ad alzare la testa e più c’è l’affermazione di Matteo Renzi. E mentre Bersani ed altri sognano ancora l’Ulivo, Renzi parla di lanciafiamme nel partito. Da questo punto di vista, è emblematica anche la conferenza stampa post voto in cui segretario del Pd ha tenuto a ribadire che l’Italicum non si tocca e che questi risultati elettorali non cambiano nulla rispetto alla vocazione maggioritaria che deve avere il Pd, così l’aveva pensato Walter Veltroni.
Allora a maggior ragione la domanda è: perché questo voto in uscita dal Pd non l’abbiamo intercettato? Perché se loro scendono noi non saliamo? Chiaramente la risposta tira in ballo più questioni, ma una su tutte – nella sua banalità – le tiene tutte dentro: noi non esistiamo. Le città in cui noi andiamo peggio sono Roma e Torino. Queste sono anche le città in cui invece si attesta meglio il M5S. Pensiamo ancora che il loro risultato elettorale sia frutto del voto di protesta? Del trend nazionale? Del voto utile al contrario? Beh, mi dispiace ma non è così. Non del tutto, almeno. Il M5S in questi anni ha prodotto lavoro sul territorio e radicamento sociale. Chiaramente non discuto qui della qualità di questo lavoro e di questo radicamento, dico solo che la loro azione è stata visibile e costante. Dal movimento virtuale sono passati a quello reale. Fatto di presenza e di contatto con i cittadini. Noi siamo arrivati a queste elezioni senza avere alle spalle questo lavoro politico. Le periferie non ci votano, ma se vogliamo dire tutta la verità, le periferie non ci votavano neanche prima. Perché dichiararsi di Sinistra di per sé, in questi anni, non ti fa automaticamente interlocutore credibile. Non più: è finito il tempo in cui quella parola conteneva in sé il senso del tuo esserci. Qui a Roma, per esempio, abbiamo raccolto il lavoro di chi in questi anni c’è stato, ha avuto ruoli istituzionali, ma non siamo riusciti ad andare oltre. Qui come altrove, infatti, al massimo abbiamo offerto l’evocazione di un progetto politico, non sicuramente un percorso reale su cui investire. E, se vogliamo essere sinceri e ancora più severi, dobbiamo ammettere che l’evocazione complessivamente non ha funzionato. Forse in alcuni territori è mancata anche quella, ma non facciamoci illusioni: sarebbe servita a raggranellare qualche voto in più, ma non avrebbe stravolto il quadro e le percentuali non sarebbero state comunque così diverse. Vale dove siamo andati male, ma vale anche dove siamo andati bene o benissimo come a Cagliari, dove Massimo Zedda ha svolto una funzione che gli viene riconosciuta e, per questo, viene riconfermato.
Noi insomma “ancora” non esistiamo. Ed è questo “ancora” il centro del ragionamento, perché dentro questo “ancora” c’è la responsabilità di ognuno di noi. Lo dico chiaramente: non si può mettere in dubbio ogni tre mesi, o ad ogni tornata elettorale, la costruzione di un soggetto politico. E tutte le volte ricominciare da capo la discussione sulla collocazione del partito che verrà. Bisogna davvero riempirla di contenuti la Sinistra, prima di decretarne il suo fallimento. Noi “ancora” questo passaggio non l’abbiamo fatto perché ci siamo preoccupati molto del Pd e poco di quello che avremmo dovuto fare. Detto questo però, se è vero che il posizionamento non è tutto, voglio affermare con altrettanta forza che è una buona base di partenza: abbiamo bisogno di costruire un soggetto autonomo e indipendente, che possa costruire il proprio profilo politico libero da condizionamenti. Prendiamoci il necessario tempo della coerenza e rifuggiamo dalle semplificazioni e dalle scorciatoie. Non c’è una ricetta che va bene per tutto, c’è la necessità di individuare i soggetti a cui rivolgere il nostro lavoro politico e fare in modo che quel lavoro politico abbia una sua concretezza e una sua utilità. Praticare il rinnovamento, vivere le periferie, abitare il paese reale sarebbe già un buon primo passo di questo percorso. Nei prossimi mesi ci sarà la battaglia referendaria che, purtroppo, nonostante i nostri sforzi dal Governo e dalle forze politiche che lo sostengono, è già viziata. La Costituzione tuttavia ci offre la possibilità di ripartire da quello che io considero il cuore del nostro agire: l’eliminazione delle disuguaglianze. Per me la Sinistra deve concentrarsi su questa battaglia e da qui deve ripensarsi nelle sue proposte. Come si sconfiggono la povertà e la disuguaglianza sociale nel 2016 e negli anni a venire, alla luce del quadro globale, europeo, nazionale? Questa è la sfida. Ed io voglio esserci.