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Basta col populismo e col “femminismo”

Pop femminismoIl 13 è stato un successo. È chiaro. Anche le donne più diffidenti, le più critiche, le più polemiche non possono non ammettere che il 13 è stata una giornata straordinaria. Per la partecipazione, per la composizione così variegata e per l’abbondanza di rivendicazioni urlate nei cortei e nelle piazze. Il 13 c’erano davvero tutte: le sante, le puttane, le precarie, le studentesse, le giovani, le meno giovani, le madri, le femministe. C’erano gli uomini. In realtà il successo di questa giornata si sentiva nell’aria già nel momento stesso in cui è stato lanciato l’appello “Se non ora quando?” perché la preparazione in sé di questo appuntamento ha scatenato un dibattito senza precedenti.

La rivendicazione della dignità delle donne offese dagli scandali sessuali di Berlusconi ha infatti determinato, come in una sorta di effetto domino, la dignità di tante donne a esprimere un punto di vista “altro” anche rispetto all’appello iniziale. È stato ovunque uno scatenarsi di prese di posizione, di distinguo, di ragionamenti, di stesura di altri appelli, di articoli, di assemblee, di iniziative pubbliche, di pratiche, di azioni tutte alla fine confluite in un’unica giornata che ha ridato fiato a questo Paese. È stato talmente forte l’impatto di queste piazze che oggi, in maniera del tutto naturale, si aprono davanti a noi numerosi interrogativi: su come non disperdere queste energie e come portare avanti questo percorso, su come fare in modo che la giornata del 13 non si trasformi in uno spot estemporaneo, su come tenere alta l’attenzione sui tanti problemi che ci riguardano.

Ecco allora che si comincia a individuare (niente di più facile!) nella data simbolica per antonomasia dell’8 marzo il secondo incontro generale di genere. Giusto! Ma se 8 marzo deve essere, allora è bene che analizziamo come tutte le complessità emerse nella giornata del 13 possano avere piena cittadinanza in uno spazio comune. Per farlo, innanzitutto, dobbiamo dirci quello che non ha funzionato, quello che è stato contestato, quello che non va rimosso e replicato. Io la manifestazione l’ho fatta a Roma. Con il collettivo di cui faccio parte, Donne daSud, abbiamo fatto la scelta di sostenere fino in fondo la piazza attraverso una presenza molto visibile, portando lì il nostro punto di vista (uno striscione enorme con su scritto: “Non chiamatemi escort sono una puttana, non chiamatemi puttana sono una schiava”), ma nello stesso tempo – con altri pezzi di movimento con cui abbiamo dato vita a un appello diverso da quello ufficiale della manifestazione (“Indecorose e libere”) – abbiamo fatto il corteo che poi è addirittura finito davanti a Montecitorio. Perché abbiamo deciso di dividerci e di stare in entrambi i luoghi? Perché riconosciamo ad entrambi gli spazi un desiderio e una potenza a cui non vogliamo rinunciare peraltro in virtù di una divisione frutto di una discussione – vera e aperta – ancora tutta da fare. Non ci stiamo all’idea di suddividere – ed è una banalità – le donne moraliste e populiste e le femministe dure e pure.

Allora per dare un contributo a questa discussione che considero necessaria, parto da me dicendo che cosa non ho condiviso della piazza “Se non ora quando?”: innanzitutto non ho condiviso la piazza. A Roma, più che in qualsiasi altra città, si sarebbero dovute attraversare le strade. Per il valore simbolico che questo corteo avrebbe potuto avere qui, nella Capitale del potere e nelle Capitale delle disuguaglianze sociali, nella città del sindaco Alemanno che più di tutti sta applicando la politica senza diritti e appunto senza dignità. Si è preferito fare uno “spettacolo” su un palco piuttosto che mettere in scena la mobilità del dissenso. E che ci fosse davvero il bisogno di camminare, come credo, lo dimostra il fatto che poche centinaia di ragazz@ spontaneamente hanno dato vita a un corteo che si è ingrossato sempre di più nelle vie e nelle strade che ha incrociato.

L’altro elemento che segnalo, su cui vi invito a riflettere, è stata la sensazione che ho avuto stando proprio sotto quel palco e camminando per la piazza: quello che avveniva sopra era abbastanza diverso da quello che si dichiarava e si respirava sotto. Il palco e la piazza non parlavano la stessa lingua. L’ho avvertito rispetto a tutte quelle donne e quegli uomini che prendendo il nostro volantino e leggendo il nostro striscione ci esprimevano disagio nell’ascoltare la lettera indirizzata a Ruby. O, ancora, che gli unici a parlare di dignità delle prostitute fossero stati una suora e un uomo, Stefano Ciccone di Maschile plurale, e non una donna per esempio del Comitato in difesa dei diritti delle prostitute. L’idea costante di porre una distanza fra donne che lavorano, studiano o si sudano quel poco che hanno rispetto a chi guadagna non so quante migliaia di euro per una prestazione sessuale l’ho trovata lontana dalla critica del potere che oggi tutte noi facciamo rispetto alle nostre condizioni di vita. E infatti quella piazza rivendicava molto di più: rivendicava tutto. Rivendicava esattamente un’altra idea di società e della politica. Senza sapere bene come fare, ma con la voglia e la necessità di dichiararlo attraverso un elemento di partecipazione.

Di questo io penso che bisogna avere grande rispetto: bisogna mettersi in ascolto e non inorridire se quello che ascoltiamo non è esattamente corrispondente al nostro back ground culturale. Questo Paese è in ginocchio e farà tanta fatica a risollevarsi. Pensare pertanto di dirottare migliaia di donne verso le rivendicazioni “giuste” facendo una lezione di femminismo è altrettanto fuori dalla realtà. Adesso chiaramente mi sto riferendo a chi quella piazza ha deciso di non attraversarla.  A chi ci sta spiegando in questi giorni che non va assecondata la “pancia”, a chi liquida quello spazio come populista e giustizialista, a chi ne fa una questione di classe. Ecco per me questo atteggiamento forse è anche più insidioso del moralismo attribuito alla manifestazione. Perché soprattutto oggi, in uno dei momenti più drammatici per il nostro Paese, chi ha gli strumenti per leggere quello che succede (o ha la presunzione di averli) li dovrebbe mettere a disposizione di più gente possibile, di chi questi strumenti li ha persi o di chi per vari motivi non li ha mai avuti. Questa sì che è una questione di classe! Credo cioè che si debba riuscire a venir fuori da un meccanismo da circolo culturale in cui si snobba chi, magari per un’insofferenza asfissiante, non distingue più il suo nemico e non ha neanche quella proprietà di linguaggio di cui tante di noi hanno avuto la voglia, la passione e la possibilità di apprendere dalla cultura femminista. O ancora, di chi fa parte di una generazione che quella cultura l’ha assorbita, elaborata, e decostruita a tal punto da volerla oggi superare.

Io lavoro in uno sportello che si occupa di diritto all’abitare in un Municipio di Roma, al quale si rivolgono le persone che hanno uno sfratto in corso: la presenza più forte è quella delle donne, semplicemente perché loro possono in qualche modo “umiliarsi”, spiegare perché non si è pagato e chiedere aiuto. Quando sono costretta a dire che il bando per la casa popolare non è ancora uscito, che i residence sono saturi o che non si riesce a trovare posto, il commento che mi è capitato di sentire spesso è il seguente: “però agli immigrati le case le danno… prima bisognerebbe far passare gli italiani poi i neri… vengono qui è trovano l’America, non è giusto!”. I commenti non sono quasi mai contro l’amministrazione comunale, contro le politiche del sindaco o contro gli enti che gestiscono le abitazioni. Lo schema è quello di attaccare chi è più povero. Dico questo per sottolineare che la complessità di quello che abbiamo di fronte non può essere ridotta né a mero tatticismo né a uno splendido isolamento. La “pancia” non va assecondata, ma la piazza del 13 non può essere ignorata. Per questo mi aspetto da chiunque arrivi l’iniziativa ad andare avanti verso l’8 marzo la voglia di rinunciare a qualcosa. E di dare qualcosa. Non perché mondi diversi debbano stare forzatamente insieme, ma perché non fare lo sforzo di parlarci – anche per poi dividerci nuovamente – significa ammettere di stare giocando un’altra partita. Per noi stesse, non per tutte.