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Uccidiamo definitivamente i padri

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Tra le tante battute infelici di Mario Monti una tra le altre ho considerato di estrema matrice berlusconiana: fu quando ha dichiarato che il Pd era un partito nato nel 1921. Poi, certo, ha corretto il tiro, ma è stato evidente il riferimento retorico “vetero comunista” di berlusconiana memoria, atto a sottolineare un’inadeguatezza da parte di quel partito a leggere il tempo presente e ad adeguarsi a un’Italia diversa. È chiaro che per me il modello proposto da Monti fosse decisamente più fuori dalla consapevolezza del reale anche rispetto alla sua descrizione del Pd, devo però ammettere che in questi giorni ho riflettuto, forse per la prima volta davvero, su cosa può significare in termini di “atteggiamento” politico provenire, ereditare o, peggio ancora, pensare di aver ereditato la storia del Pci. Lo dico a partire da me che, per buona parte del mio percorso politico, ho cercato di ispirarmi a quella cultura. Eppure oggi colgo più che mai le storture e l’arretratezza che ne deriva. Perché di quel modello straordinario che intercettava e rappresentava i bisogni delle persone – sì, qui è davvero il caso di affermare la centralità dei “cittadini” – oggi non rimangono che i guasti.

Non è un caso che Fabrizio Barca decida nelle sue 55 pagine (per fortuna c’è ancora qualcuno che non ha paura di farsi carico della complessità) di dedicare gran parte del suo ragionamento alla “forma” partito. Ed evidentemente non sull’aspetto organizzativo/strutturale, ma sul senso e sulla cultura politica a cui oggi è chiamato a confrontarsi un nuovo soggetto politico. Per cui quella che erroneamente è stata derubricata come una discussione politicista, proprio alla luce di quello che è avvenuto con l’elezione del Presidente della Repubblica, è in realtà un intervento diretto al cuore della problema.

Altro che rottamazione! Qui i “giovani” c’entrano solo in parte. Dovessi dire da dove parte questa riflessione sul lascito del Pci è proprio dalla cosiddetta corrente dei “giovani turchi”. Stefano Fassina evoca il web in maniera puramente astratta o nemica, non rendendosi conto che la piattaforma è virtuale, ma le persone che la utilizzano sono in carne ed ossa: “Non possiamo cedere alle pressioni di facebook!”. Matteo Orfini, che fino a qualche giorno fa ci considerava già dentro il suo stesso partito (magari a rimpinguare la sua corrente), oggi ci attacca pesantemente – anche qui – con le stesse argomentazioni berlusconiane. E in un attimo siamo di nuovo la sinistra radicale o peggio ancora antagonista. Siamo gli irresponsabili, i minoritari, gli ideologici. Accuse che ci provengono proprio da chi tacciava di provincialismo Massimo D’Alema quando tracciava la possibilità di governare con il centrodestra. Ma non voglio perdere tempo a sottolineare le contraddizioni o la fondatezza delle nostre scelte.

Mi interessa invece ragionare sull’impossibilità che deriva da una certa cultura politica di cogliere il cambiamento. Non si può semplificare tutto, come fa Grillo, ad una questione di “poltrone”. Non ci credo, non è così e commetteremmo un errore se urlassimo anche noi solo all’opportunismo e alla convenienza. Io penso che ci sia una sincera incapacità di lettura del reale. Per cui non basta dire alla Renzi “noi siamo come Obama e vinciamo”, ma con cui anche Sel deve confrontarsi. Per esempio a noi tocca il tema dello smarrimento della sinistra sociale nel Paese. Una crisi profonda che tocca tutti, dal sindacato ai cosiddetti movimenti. In questo momento il nostro posizionamento ridà respiro ad un popolo sofferente, ma cos’è? Da chi è fatto questo popolo sofferente?

Non ce la caviamo con la ripresa tematica, né tanto meno con l’espressione “connessione sentimentale”. Giusta, ma di difficile applicazione se non stiamo ad ascoltare. Qualche sera fa una mia amica in maniera forte, esasperata, rivendicava la necessità della “precarietà”. Mi urlava che nel suo settore con l’abolizione dei contratti a progetto lei non lavora più. Siamo a questo punto. Allo stravolgimento dei punti di vista, all’accusa di aver perso tempo a difendere l’art. 18. Le mie risposte le potete immaginare, ma c’è comunque un vuoto che realmente noi non siamo stati capaci e nelle condizioni di colmare.

Oggi ritorna la possibilità di provarci. Oggi possiamo tentare di capire e di colmare quel vuoto. Le categorie sociali così come le avevamo conosciute 10 o 15 anni fa non esistono più. Non c’è uno schema che va bene per tutto, c’è la necessità di uno spazio che si fa carico di questa complessità e di questa diversità. Per questo non mi convince neppure la posizione di chi, come Pippo Civati, alza i toni e attacca tutti: perché se la risposta che dà resta sempre, fideisticamente: “Il Pd rimane il mio partito”, allora certe uscite rispondono più alla logica del posizionamento interno che alla necessità del cambiamento. Oggi lui, con tanti altri, ha la possibilità di fare con noi quello che scrive. Ecco perché paradossalmente un soggetto politico che tiene conto di tutto questo, che si “pensa” e si apre, può davvero essere strumento utile per farlo. Il cambiamento.