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Libere forse, uguali senz’altro no

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È spiacevole per noi donne impegnate in politica rispondere a un’accusa di assenza o d’invisibilità. Leggere le critiche e le polemiche di questi giorni alla fotografia tutta al maschile di “Liberi e uguali” ferisce per una serie di ragioni di ordine politico ma anche sociale e culturale.

In generale perché quella accusa non va in profondità e utilizza in maniera strumentale una fotografia che in realtà rappresenta l’intero quadro politico italiano; in particolare perché ignora completamente il grande lavoro che faticosamente tante di noi hanno portato avanti in questa legislatura anche e proprio sulla “differenza”.

Sul contesto. Quella fotografia è tutta al maschile per una ragione molto semplice: tutti i segretari di quei soggetti politici sono uomini, come uomo è il leader di questa alleanza elettorale. Chi sono le donne segretario di partito (non chiamatele segretarie che si offendono) in Italia? Soltanto Giorgia Meloni, che ha dovuto fondare Fratelli d’Italia per esserne a capo. Né in Alleanza nazionale né nel Popolo delle libertà lo sarebbe mai diventata. Un conto è l’immagine televisiva, un conto è rivestire ruoli apicali. Un caso su tutti: Mara Carfagna dentro Forza Italia. Per il resto i nomi parlano chiaro: Lega (Salvini), Movimento cinque stelle (Di Maio), Pd (Renzi) e tutta la galassia del Centro e della Sinistra. Nei partiti più grandi, allargando le maglie dei ruoli e delle postazioni, è più facile vedere donne investite di cariche importanti. Da questo punto di vista, è innegabile che il Pd è quello che ha valorizzato di più la presenza delle donne al Governo e al proprio interno.

Eppure nonostante gli sforzi, il racconto mediatico è sempre più severo, superficiale e diffidente nei confronti delle donne. Non sfuggono a questa logica le giornaliste: sono pochissime quelle che si fanno carico della differenza senza considerla una diminutio. I direttori – anche qui non azzardatevi a chiamarle direttrici – che fanno emergere un punto di vista altro che non sia quello della rappresentazione, per se stesse e per le altre, del potere politico maschile si contano sulle dita di una sola mano. Non sono donne che odiano le donne, sono donne che pensano di rafforzare la loro condizione dimostrandosi superiori alla categoria. Quindi criticare le altre donne, prenderne in qualche modo le distanze, aiuta questo immaginario. Tutto questo diventa ancora più evidente quando per esempio parliamo di violenza sulle donne. Il caso Weinstein negli Stati Uniti ha avuto, a torto o a ragione (non posso entrare qui nel merito), dei contraccolpi pesantissimi, ha aperto un dibattito, ha messo in discussione un sistema. Qui in Italia albeggia solo diffidenza nei confronti delle presunte vittime, una difesa corporativa aprioristica, in un contesto in cui la politica non si è interrogata neanche un po’ sulle proprie pratiche e scelte istituzionali.

Così abbiamo da una parte il Time che decide di affidare la copertina della persona dell’anno 2017 alle donne del #metoo, che hanno raccontato le molestie vissute e dall’altra in Italia #quellavoltache che si trasforma per alcuni in un piagnisteo inutile e per altri in una pratica pericolosa perché le denunce non vanno fatte sui social.

Tutto vero. Eppure colpisce che davanti all’unico grande movimento capace in questi anni di portare un milione di donne e di uomini in piazza, senza l’aiuto di sindacati e partiti – e cioè “Non una di meno” – la politica non riesca ad ammiccare a questo mondo neppure per spirito utilitaristico.

E adesso arriviamo a noi. Perché se è vero che c’è un problema generale, è anche vero che Liberi e uguali ha delle responsabilità. Perché è proprio qui più che altrove che dovrebbe vivere una cultura politica che tiene conto di questi processi. Invece, aldilà delle foto, sul palco del 3 dicembre è mancata proprio questa cultura politica. Non una parola è stata pronunciata sulle battaglie condotte in questi anni: sostegno ai centri antiviolenza, la proposta di legge sull’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, il sindacato ispettivo per vigilare sulla legge 194 e sulla tratta delle donne, gli emendamenti a tutti i provvedimenti per agevolare il welfare. E tanto tanto ancora.

Le uniche parole che puntavano a sfiorarci sono state quelle sulla “parità di genere”, questione peraltro “comoda”, considerando che la legge elettorale impone la soglia antidiscriminatoria del 40%. E menomale, direi. Perché ci piacerebbe tanto vivere in un paese senza quote, ma possiamo affermare con assoluta convinzione che se non ci fossero, i capolista uomini sarebbero la stragrande maggioranza. Per esprimere questo concetto elementare sulla parità di genere è stata chiamata in causa la Presidente della Camera Laura Boldrini. Personalità che mi auguro deciderà di aderire al nostro percorso politico, ma che non deve essere utilizzata come scorciatoia per colmare il vuoto narrativo che abbiamo.

Questo racconto manca per molte ragioni, ma anche perché come donne di Sinistra è stato imposto abbastanza. A volte perché diamo per scontato che alcuni passaggi siano patrimonio ormai di tutte e tutti, altre volte perché siamo stanche di apparire come quelle che devono rivendicare sempre un punto di vista “altro” sulle cose. E invece è ancora assolutamente necessario. Soprattutto quando ti stai cimentando in un progetto nuovo che coinvolge figure che non vengono dal tuo stesso percorso politico. Non c’è da scandalizzarsi e non c’è da scoraggiarsi. Non mi scandalizza affatto il linguaggio di Pietro Grasso che non ha evidentemente una formazione femminista, ma neppure mi scoraggia perché ha curiosità, intelligenza e voglia di confrontarsi. Non sopporto invece le solite maestrine social dalla penna blu e rossa che continuano a darci voti ad ogni pié sospinto, né tutti questi uomini che si scoprono femministi nelle tornate elettorali. C’è una comunità che con entusiasmo sta provando a offrire un’alternativa politica in questo paese: alle destre, ai populismi e alle politiche sbagliate del Partito democratico. Siamo all’inizio, ma sono certa che tutte e tutti insieme riusciremo a creare qualcosa che ci rappresenti appieno, qualcosa in grado di far identificare quel pezzo di popolo orfano di un luogo in cui stare bene.

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