In tempi di crisi, in questa nostra crisi, non è difficile capovolgere l’ordine delle cose. Per rendere possibile ogni provvedimento di questo Governo, ogni posizione politica, ogni scelta sindacale “ineluttabile” basta utilizzare due semplici coordinate: l’Europa e il rischio recessione. L’ineluttabilità può determinare tutto il contrario di tutto. È quello che è avvenuto e sta avvenendo in tema di lavoro: la riforma delle pensioni (è l’Europa a chiedercela) la discussione sull’art. 18 (il rischio è che nessuno voglia più investire in Italia).
Davanti a tutto questo purtroppo l’Italia si riconferma un Paese narcotizzato, anni di Berlusconi non hanno determinato degli anticorpi ma hanno confermato una prassi. Al peggioramento delle condizioni di vita dei ceti medi, e all’esasperazione dei ceti poveri, corrisponde un sentimento di ineluttabile rassegnazione resa lieve dalla speranza che questo sacrificio immenso prima poi verrà ripagato. Quello che stupisce non è la fiducia che gli italiani hanno riposto in questo Governo, no quello che stupisce, prima con Berlusconi adesso con Monti, è come gli italiani subiscano in maniera assolutamente passiva la ridefinizione di loro stessi. La politica e l’informazione ad essa legata, segna di volta in volta i desideri, le abitudini, i sentimenti, le aspirazioni di un’intera società. Tutti nessuno escluso, anche chi reagisce negativamente e polemizza con la descrizione che gli viene affibbiata nella funzionalità del provvedimento politico, lo fa rimanendo all’interno del loro stesso schema, attuando di fatto sempre una protesta resistenziale e mai di nuovo immaginario.
Sul lavoro sta avvenendo esattamente questo. Ed è straordinario come i “giovani” riescano sempre a farsi incastrare in un modello o in un anti modello stabilito da altri. Brunetta ci chiamava “bamboccioni” e da quel momento in maniera più pressante che mai è partita la narrazione precaria. In ogni piazza e in ogni racconto strappato da una televisione, partiva la sofferenza di chi non riusciva a progettare un futuro, a costruirsi (?) una famiglia, ad avere una pensione. Tutto molto orientato al domani, poco racconto del presente. Perché la discussione non è su quello che sei e su quello che hai, è su quello che avresti dovuto essere e non avrai mai. Cioè il modello con cui si continua a fare i conti è quello dei propri genitori, il racconto sofferto di almeno due generazioni parte da questa mancanza di opportunità. L’inseguimento di questa chimera ha prodotto l’alibi perfetto alla politica per l’immobilismo e per portare avanti un finto dibattito di riposizionamento degli schieramenti. Da una parte il continuo richiamo alla flessibilità come unico strumento per inserire i giovani nel mercato del lavoro, dall’altro il ritardato tentativo di cambiare tutto per non cambiare niente. Risultato: la flessibilità è diventata solo precarietà senza alcuna garanzia e tutela.
In questo quadro Monti arriva e ci spiega l’ineluttabile. C’è un Paese che ha vissuto nella menzogna, che ha allevato i propri figli in maniera sbagliata, che ha progettato per alcuni di loro un’esistenza che non gli era permesso avere. Quindi oggi per sopperire a questo gap l’unica cosa da fare per venire incontro ai giovani è eliminare i privilegi/diritti dei vecchi per fare più spazio a loro. Ma non finisce qui perché al tecnicismo con cui la ministra Fornero ci propone la riforma del lavoro, dobbiamo aggiungere dei segnali inequivocabili di quella “ridefinizione” di noi stessi a cui facevo cenno prima: lo “sfigato” che ancora a 28 anni non è laureato. Bisogna capire che questa affermazione poi rettificata e per la quale soprattutto la sinistra ha mostrato indignazione, in realtà è già passata, è già patrimonio comune. È come l’operazione razzista della Lega con i migranti. Già vive l’idea del ragazzo parassita dentro le università che invece di trovarsi un lavoro perde tempo nel conseguire un titolo di studio di cui l’Italia non ha neanche bisogno come una laurea in storia, in lettere… E allora ecco che si mette in atto la macchina difensiva. Una motivazione propagandata dalla sinistra è quella sul diritto allo studio, di quanti giovani per studiare debbano anche lavorare rallentando così inevitabilmente il traguardo. I “giovani” che si sentono toccati dall’esser stati definiti “sfigati” rispondono o con la stessa debole spiegazione o con un’ammissione di colpa a cui però fa sempre capolino una mancanza di redenzione successiva da parte del mercato del lavoro. 1 a 0 per Martone.
Apparentemente autogol per il sobrio Monti: “la monotonia del posto fisso”, perché a differenza del parassita universitario per l’opinione pubblica e per la cosiddetta società civile qualsiasi ragazzo volenteroso in Italia merita di avere un contratto a tempo indeterminato. E allora come tante immaginette arrivano i giovani che potremmo definire: i laureati disposti a tutto. Quelli che dimostrano che non è vero che questa generazione non intende lavorare se non con il proprio titolo di studio, quelli che orgogliosamente raccontano della laurea in scienze politiche trasformata in contratto da banconista al supermercato. Questo racconto serve per dire: “avete visto come sono bravi i giovani in Italia? Non è vero che sono tutti degli sfigati che vogliono stare accanto a mamma e papà!”.
Non voglio essere fraintesa, è chiaro che per campare si fa quel che si può ma quello che mi sento di contestare aspramente è l’idea che un provvedimento politico sistematizzi uno stato di necessità e lo spacci pure come l’unica cosa possibile da fare.
Infine concludiamo questa carrellata giovanilistica con i laureati da mea culpa televisivo: “non avrei mai studiato filosofia se avessi saputo…” per questi manca solo di chiedere perdono in diretta a tutti gli italiani che stanno in ascolto. Cioè siamo di fronte al paradosso per cui il punto non è un Italia ferma da cinquant’anni che non ha fatto investimenti, che non ha prodotto crescita, che non sa cosa sia la riconversione industriale, l’alta tecnologia e la green economy ma il problema è che c’è troppa gente che studia e che studia anche cose inutili.
Questo capovolgimento dello sguardo, del punto di vista, non solo peggiora le nostre condizioni di vita ma distorce anche l’elemento rivendicativo. Noi oggi possiamo decidere di difendere l’art.18, e secondo me è bene farlo, per non permettere che vengano messi a rischio i diritti dei lavoratori ma la verità è che la nostra storia ci parla di altro. Ci hanno spacciato per anni una radicalizzazione del conflitto attraverso l’abrogazione della legge 40 che si è sempre tramutata in un nulla di fatto e mentre si ripeteva ciclicamente questo gioco a perdere la precarietà non è stata più solo contrattuale ma si è trasformata in esistenziale. Non si è tradotta solo in comprensibile vittimismo ma anche in nuova consapevolezza del sé, in un nuovo modo di autodeterminarsi e di concepire i processi sociali. Invece di viverli con senso di colpa alcuni diritti che abbiamo acquisito nello stato di precarietà, dovremmo rivendicarceli non fare finta che non ci siano perché non sono gli stessi che la storia di questo Paese ha conosciuto. Il diritto alla cittadinanza per esempio va oltre il lavoro e noi ne siamo la rappresentazione. Per poterne usufruire fino in fondo la rivendicazione è la richiesta di una continuità di reddito. Questo oggi devono essere capaci di urlare per sé le generazioni che vanno dai 20 anni ai 40. È ingeneroso nei confronti di tutti quei giovani che in questi anni hanno manifestato nelle piazze? Non credo, non lo penso ed io ero lì con loro. I movimenti hanno bisogno di rinnovarsi e di trasformarsi, l’importante è essere entusiasti e non rassegnati al cambiamento, per riuscire a governarlo e non subirlo.