da La 27esimaora – Corriere.it
Qualche giorno fa è stato sferrato un altro colpo alla ‘ndrangheta di Rosarno, il paese della provincia di Reggio Calabria noto per la rivolta dei migranti. Dopo l’arresto di Francesco Pesce, i carabinieri hanno individuato e incarcerato sette affiliati della famiglia. Sono stati scoperti grazie alle riprese delle videocamere di sorveglianza con cui il boss aveva circondato il perimetro della casa dove si nascondeva. Qualcosa di molto simile a una grottesca legge del contrappasso. E una bella notizia che restituisce sempre un pezzetto di dignità in più a quelle morti, a quelle vittime innocenti cadute per mano di quella che certamente è una delle cosche più sanguinarie della ‘ndrangheta.
La storia della famiglia Pesce è infatti la dimostrazione che non esiste nessun “codice d’onore” a muovere le azioni di questi uomini: la violenza efferata e i crimini di cui si sono macchiati – di generazione in generazione – non ha risparmiato nessuno.
Esiste solo l’interesse, il potere e la vendetta per chi osa sbarrare loro la strada. Non c’è nessuna etica nella ‘ndrangheta e nelle mafie. La bufala storica per cui gli uomini d’onore risparmiavano le donne e i bambini è stata finalmente svelata, oggi nessuno può più crederci.
Perché l’elenco nel corso del tempo si è fatto lungo e perché finalmente i nomi e le storie delle donne uccise stanno uscendo fuori. Lo dimostra la vicenda incredibile e drammatica di Annunziata Pesce, una giovane donna uccisa nel 1981 e di cui s’è saputo solo un anno fa. A decretare la sua fine è stato lo zio boss.
Storie come abbiamo già affrontato su la 27ora: con l’appello a “non lasciare sola” Denise, la figlia di Lea Garofalo. O con il racconto di Giusi Fasano che ha raccontato le “donne anti-sistema
A ucciderla suo cugino, davanti a suo fratello. Aveva una colpa Annunziata, imperdonabile: s’era innamorata di un carabiniere. Un’onta che la cosca non poteva accettare. A tal punto da doverla eliminare e da dover cancellare persino la sua memoria. Per sempre. Finché un’altra donna, sua cugina Giuseppina Pesce, diventata collaboratrice di giustizia, ha deciso parlare e di raccontare quella storia.
Una storia che lei conosceva perché in famiglia la minacciavano di farle fare la sua stessa fine.
Ha resistito alle minacce, Giuseppina. E con le due dichiarazioni sta assestando colpi micidiali alla sua famiglia. Un’altra giovane donna di Rosarno aveva iniziato lo stesso percorso: si chiamava Maria Concetta Cacciola. Una donna di un’altra famiglia mafiosa di Rosarno, i Bellocco.Anche lei ha iniziato a collaborare e a colpire il clan. Poi non ha retto. E nessuno potrà dimenticare la sua voce straziante mentre registrava una dichiarazione (che le sarebbe stata estorta) in cui rettificava tutte le denunce nei confronti della sua famiglia per il terrore di non potere vedere mai più i suoi tre figli. Abbiamo ascoltato tutti quando ormai era troppo tardi, quando Maria Concetta era già stata suicidata dalla sua famiglia. E’ morta ingerendo acido. Lo stesso acido che aveva bevuto per uccidersi una donna della ‘ndrangheta di Vibo Valentia che aveva deciso di collaborare come Tita Buccafusca.
L’acido invece è il protagonista di un’altra storia incredibile, la storia di Lea Garofalo che, secondo la sentenza di primo grado, è stata interrogata, uccisa e sciolta nell’acido in provincia di Milano dal suo ex compagno, e padre di sua figlia, per avere deciso di collaborare con la magistratura.
Ma commetteremmo un errore se pensassimo che è solo questo tipo di tradimento a non essere concepito dalla ‘ndrangheta.
È di qualche giorno fa anche la notizia dell’arresto di parte della famiglia Lo Giudice di Reggio Calabria: sono accusati di avere ucciso nel 1994 Angela Costantino. Angela – 25 anni e già 4 figli – ha sposato il boss Pietro Lo Giudice. Viene uccisa perché si è permessa di avere una relazione extraconiugale mentre suo marito era in carcere. E forse non è un caso se oggi si teme che abbia fatto la stessa sorte anche sua cognata, Barbara Corvi, sposata con un altro esponente della famiglia Lo Giudice, Roberto. Di lei non ci sono più notizie dal 2009.
E’ un elenco interminabile quello delle donne uccise dalle mafie. Noi dell’associazione daSud abbiamo provato a mettere tutte insieme le loro storie.
Abbiamo scoperto che sono più di 150 le donne assassinate, la prima – Emanuele Sansone – addirittura nel 1896.
È la prima volta che accade, nel tentativo di non dimenticare queste vittime e di avviare una discussione pubblica sulla relazione donne-mafie. E’ però anche un modo per svelare la doppia ipocrisia – malavitosa e sociale – nei confronti delle donne che condanna la violenza ma che fa classifiche sulle ragioni che l’hanno determinata.
Sono molte le ragioni degli omicidi delle donne da parte delle mafie:sono morte per l’impegno politico, sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire.Spesso sono definitite “intoccabili” le donne, eppure proprio questa è la ragione per cui vengono prese di mira: come vendicarsi se non colpendo proprio loro, le donne degli “altri”: madri, mogli, fidanzate, sorelle. E poi c’è l’omicidio “passionale”: quello che socialmente tutto sommato ha un senso.
È più innocente la donna che passava per caso da una strada e si è beccata una pallottola vagante in testa di quella che ha tradito suo marito?
Per dare una risposta a questa concezione stanno tutte insieme queste storie: perché sono tutte morti riconducibili ad una causa originaria e cioè il sistema criminale e socio-culturale delle mafie. Che, in fondo, non fanno altro che riprodurre un modello patriarcale, sessista, machista che appartiene alla società e che non è arcaico ma ahimè ancora contemporaneo.
Purtroppo a confermare questa tesi ci vengono ancora una volta in aiuto i numeri sul femminicidio in Italia che – tra carnefici e vittime – non conosce età, o classe sociale, o provenienza geografica. Sono già 45 le donne uccise dai propri compagni ed ex compagni nel 2012. Con una media annuale che si attesta sul centinaio.
Numeri incredibili. Eppure lo capisci subito, parlando con la gente, cheancora certi processi sociali sono tollerati. Che ha anche un’altra faccia della medaglia: un altro disvelamento che abbiamo cercato di fare con questo lavoro è quello che vede protagonisti “giusti” gli uomini.
Quando in Calabria un uomo viene ucciso perché si è ribellato, ha denunciato, si è rifiutato al ricatto della ‘ndrangheta è doppiamente vittima: parte nei suoi confronti un’opera scientifica di discredito. Come? Si sparge in giro la voce che non è vero che è stato ucciso perché si era opposto alla criminalità organizzata ma che è stato ammazzato per “questioni di donne”. Un modo per depotenziare il suo operato, per infangare il suo nome, per
rendere più giustificabile l’assassinio. In fondo, se l’è meritato!