Il 13 febbraio non ho fatto parte di quelle donne che “quella piazza mai e poi mai”, non ero tra quelle che “mi si nota di più se non vengo o se vengo e me ne sto in disparte”, non ero tra le donne che stavano sul palco. Ero, con il mio collettivo, tra coloro che sentivano forte il bisogno di esprimere un dissenso, anche basato su parole diverse da quelle su cui era nata la manifestazione, che sentivano la necessità di ascoltare senza pregiudizi gli umori di quella piazza. Il risultato, come sappiamo, è stato straordinario sia in termini di partecipazione sia di composizione della mobilitazione. Ecco perché penso che quella piazza avrebbe dovuto imporre una forte riflessione a tutte, a chi c’era e a chi non c’era, a chi era contraria e a chi non lo era, a chi ha posto dei distinguo e a chi era soddisfatto dell’appello con cui era stata convocata. Quella piazza imponeva un confronto largo, soprattutto a Roma dove un pezzo di quella nuova generazione – stucchevolmente ovunque sempre evocata – aveva deciso di attraversare il 13 con azioni simboliche e con un corteo che si è spinto fino a Montecitorio.
Eppure lo spazio invece di aprirsi, in maniera del tutto paradossale, appare chiuso. Il comitato “Se non ora quando” che si è costituito lancia altri due appuntamenti offrendoci il vademecum della perfetta manifestante, tagliando con l’accetta le priorità problematiche delle donne di questo Paese (“i lavori, maternità/paternità, l’informazione”), e proponendosi di “parlare prima di tutto alle giovani e ai giovani, di coinvolgerli”.
Partecipo a riunioni e assemblee in cui continuamente siamo tirate in ballo – trentenni e ventenni – con l’attribuzione di vari stereotipi: quella più ricorrente è quella di vittime da salvare, persino da noi stesse. C’è chi sembra essersi dato una vera e propria missione salvifica e didattica. Prima con la storia dei modelli di riferimento, come se fossimo una generazione che vive con l’incubo e la minaccia inconsapevole di fare la velina, di fare soldi facili, di “svendere” il proprio corpo. E adesso invece come una generazione devastata dall’impossibilità, a causa della precarietà e del lavoro/non lavoro, di diventare madri.
Considero profondamente scorretto e ingiusto parlare della precarietà di un’intera generazione offrendo esclusivamente questa declinazione che è parziale e anche “pericolosa” per noi donne. E non perché non ci sia una verità in questo ragionamento: è chiaro che l’instabilità economica e un’occupazione senza diritti non facilitano la scelta di fare un figlio. Tuttavia l’inquadramento della precarietà esistenziale fatto in questo modo ne svuota completamente il senso profondo che va ben oltre questo schema. E che anzi, proprio in virtù della sua portata, invece ne decostruisce i ruoli, non li fortifica. L’apertura di uno spazio di discussione avrebbe permesso di contribuire a un ragionamento, fornendo altri punti di vista. È necessario, anche perché le contraddizioni che viviamo quotidianamente sulla nostra pelle sono davvero tante. Allora partiamo dal discutere su cos’è oggi la precarietà, cosa ha prodotto sulle trentenni e cosa produce sulle ventenni, com’è cambiato l’ordine del simbolico, cos’è l’instabilità dei desideri, quanto questo tema sia diventato trasversale ai generi e di come questo abbia anche rielaborato e, in alcuni casi, messo in crisi il concetto stesso di autodeterminazione e di separatismo femminista.
A scanso di equivoci, faccio tre precisazioni: nessuno di noi vuole porre uno scontro generazionale o elemosinare un ascolto, nessuno ha la presunzione – in una situazione così drammatica – di considerarsi autosufficiente né tantomeno di voler rappresentare questa complessità. Però si è messo a disposizione quello che invisibile non è, forse quel corteo del 13 fatto di ragazzi e di ragazze e quella piazza traboccante di gente imponevano semplicemente di farci i conti.
L’otto marzo almeno una parte della generazione che si fa queste domande, e che ad alcune di queste prova a dare anche una risposta, sarà in strada. Non ha bisogno di essere cercata e scovata. Alle 18 da Bocca della Verità partirà un corteo – che arriverà fino a piazza Navona – che punta ancora a dire, anche al caro Alemanno che approfitta della violenza sulle donne per rilanciare con il razzismo e la xenofobia, che la città è nostra. Come le nostre vite indecorose e libere.
(Pubblicato su Gli Altri)